Dopo gli ultimi scontri nei villaggi sciiti vicini alla Capitale, le autorità temono che i disordini possano diffondersi coinvolgendo anche Sakhir, l'oasi di lusso dove sono blindati i team delle scuderie dei piloti. Nonostante il pericolo, il denaro in ballo - 40 milioni di dollari - è troppo allettante per rinunciare alla competizione automobilistica in un Paese ormai in stato di guerra civile
Volano bombe molotov sul Gran Premio di Formula Uno del Bahrain. Mercoledì notte un camion con a bordo i tecnici della scuderia della Force India è stato sfiorato da un ordigno mentre percorreva l’autostrada che collega Sakhir, località desertica dove si trova l’International Bahrain circuit, alla capitale Manama. Proprio la relativa distanza dal circuito con la Capitale, da un anno teatro della rivolta della popolazione contro la monarchia, aveva fatto dichiarare ai boss della Formula 1, che per lo svolgimento gara la sicurezza era assicurata. La sicurezza c’è per i piloti, la maggior parte arrivati giovedì, all’ultimo momento, dopo aver lasciato mogli e fidanzate a casa. E per gli addetti ai lavori. Tutti alloggiati e blindati a Sakhir; un’oasi di vetro e cemento nel deserto che, oltre al circuito, contiene anche diversi ristoranti, alberghi, bar e il nuovo polo universitario.
La sicurezza e la libertà mancano invece a Manama e nelle altre città per il popolo del Bahrain, a maggioranza sciita e governato con il pugno di ferro da una monarchia sunnita stretta alleata della monarchia assoluta wahabita dell’Arabia Saudita. Per questo, nonostante da più di un anno nel piccolo arcipelago del golfo sia in corso una primavera di rivolta repressa nel sangue, l’occidente preferisce non occuparsene: troppi gli interessi economici in gioco. Così come troppi sono i soldi in ballo per questo Gran Premio. Dal 2004 l’erede al trono sceicco Salman bin Hamad Al Khalifa versa alle casse della F1 oltre 40 milioni di dollari ogni anno per disputare la corsa nel proprio paese. E visto che la F1 è in costante perdita, di questi soldi c’è assolutamente bisogno.
Anche perché già l’anno scorso il Gran Premio previsto a marzo non si disputò. Il 14 febbraio cominciò infatti la sollevazione popolare, che la polizia di re Hamad bin Isa Al Khalifa subito represse nel sangue, anche tramite l’aiuto delle truppe speciali dell’esercito saudita che entrarono in Bahrain e cominciarono a sparare sulla folla. Da allora le associazioni umanitarie hanno denunciato omicidi e arresti in serie di migliaia di attivisti, oltre che la detenzione e la tortura sistematica avvenuta nelle carceri speciali di più di cento persone. Essendo il Gran Premio, come spesso l’organizzazione di eventi sportivi in generale in questi paesi, la vetrina attraverso cui la satrapia del Bahrain vuole presentarsi al mondo occidentale, cercando di darsi un’immagine presentabile per entrare nelle stanze dei bottoni e concludere affari, subito è diventato un simbolo anche per i manifestanti.
Dopo il primo anniversario della rivolta, a seguito di una manifestazione alla quale hanno partecipato oltre 100mila persone, più di un sesto dell’intera popolazione, La Gioventù per la Rivoluzione ha pubblicato una lettera aperta in cui ha annunciato: “Faremo qualsiasi cosa per garantire il fallimento del Gran premio del Bahrain piuttosto che vederlo macchiato con il sangue e la vergogna”. Ma la Formula 1 ha continuato a fare da cassa di risonanza alle patetiche dichiarazioni dei governanti, che sostenevano che la situazione fosse sotto controllo. Bernie Ecclestone, padre-padrone del ‘circus’, si era spinto a definire qualche settimana fa i manifestanti “un gruppo di ragazzini che fanno casino”.
E se in ballo ci sono 40 milioni di ragioni a cui non si può rinunciare, allora meglio tapparsi le orecchie di fronte alle dichiarazioni di Amnesty International, che tramite Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord, denuncia: “Le autorità stanno cercando di mostrare un paese avviato sul cammino delle riforme, ma continuiamo a ricevere notizie di torture e di uso eccessivo e non necessario della forza contro i manifestanti”. E confermare lo svolgimento della gara, nonostante i manifestanti avessero già reso pubblico il programma delle proteste da attuare durante lo svolgimento del Gran Premio. E mentre ai piloti è stato impedito in conferenza stampa di rispondere a qualsiasi domanda riguardo la situazione politica nel paese, Zayed Alzayani ha dichiarato: “È stata una decisione attentamente ponderata. Non accadrà nulla di terribile, non siamo in Siria”.
Detto fatto. Settimana scorsa un ragazzino di 15 anni è stato ucciso con un proiettile sparato al petto. Sabato sono state arrestate almeno 80 persone in una manifestazione contro il Gran Premio nei pressi di Manama. Mercoledì è arrivata la molotov durante l’annunciato corteo nei pressi dell’autostrada. Per il fine settimana gli attivisti hanno annunciato altre manifestazioni, che probabilmente non arriveranno a lambire la dorata e iper-protetta oasi di Sakhir dove si svolge la gara, ma cercheranno comunque di arrivare il più vicino possibile alle telecamere e ai milioni di spettatori che guarderanno la corsa in televisione. Poi, una volta che il carrozzone della F1 se ne sarà andato con le tasche gonfie di dollari e saranno spente anche le telecamere, la repressione per mano degli alleati dell’occidente continuerà truculenta al buio e nel silenzio. No, non è la Siria.