Due donne con lo stesso cognome, Battaglia. Letizia e Michela, nessuna parentela, la stessa passione per la fotografia. La loro collaborazione in un identico progetto, curato da un’altra donna, Giovanna Calvenzi, ha prodotto un bellissimo salto nel tempo e nella storia. Chi vuole (e può) vada a vedere questa mostra semplice e mirabile (Storie di mafia, Il dolore della memoria, Topografia della memoria) ospitata in uno spazio altrettanto minimale nel cuore del quartiere Garbatella (intanto esploratelo sul web, 10bphotography.com), in via San Lorenzo da Brindisi, a Roma.
Il progetto si compone di due serie di immagini. Quelle di Letizia Battaglia, classe 1935, pluripremiata in Usa, donna del bianco e nero e degli scatti che hanno illustrato un ventennio di storia (drammatica) a Palermo. E quelle di Michela Battaglia, classe 1982, che documenta con l’occhio di chi non c’era (e poi ci sarà, ma bambina) gli omicidi degli innocenti, nel fiume di sangue che si conclude (se mai si concluderà) con i delitti più recenti. E per documentare, sceglie di registrare con la macchina fotografica i luoghi materiali, di questi omicidi.
E’ una mostra semplice, come si è detto. Ma terribilmente emozionante per tutti, di certo per chi abbia custodito in qualche angolo della coscienza un file dedicato alla lotta ingaggiata (e lontana dall’essere conclusa) tra le istituzioni sane e la mafia, tra la società civile per bene o l’economia che non si è piegata e i clan di Cosa Nostra.
Tra le tante raffigurazioni del dolore, della miseria e della morte, sono rimasta colpita da due foto di Letizia distanti tra loro quasi un ventennio. La prima inquadra l’auto in cui è riverso il corpo del presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), sul quale piange la moglie che ha assistito all’agguato. Ci può essere una testimonianza più crudele e vera di questa? No.
La seconda foto ritrae il magistrato Roberto Scarpinato – mi pare nel 1998 – sul tetto del tribunale di Palermo, mentre fuma circondato dalla scorta, in borghese ma ad armi spianate. (Le Torri Gemelle erano di là da venire, ma la doppietta Capaci-Via Amelio aveva lasciato il segno).
La ricerca fotografica di Michela non lascia trapelare emozioni apparenti. Del resto, che cosa si può trovare, di commovente, nel cancello bianco davanti al quale fu ucciso il vicequestore Antonio Cassarà? Era l’estate del 1985. Il 6 agosto Cassarà tornò a casa dopo giorni e giorni di tour de force investigativo in seguito all’omicidio del collega e amico Giuseppe Montana. Lo accompagnavano altri due poliziotti, Roberto Antiochia e Natale Mondo. Antiochia era rientrato apposta dalle ferie. Aveva 23 anni, un ragazzino per gli standard di oggi, ma professionalmente preparatissimo (ho poi conosciuto la madre, una donna di uguale coraggio). Antiochia scese dalla volante per scortare il “capo”. Sotto gli occhi della signora Cassarà, che stava al balcone, il commando mafioso sparò decine di raffiche di kalashnikov dalle quali uscì vivo soltanto Mondo (per essere a sua volta ucciso nell’88). Questa era Palermo, per chi se la ricorda, queste sono fotografie che vi resteranno comunque negli occhi e nel cuore. Valgono molti discorsi e, soprattutto, aiutano a ricordare tutti quelli che erano a un passo dal dimenticare. E brave, le ragazze Battaglia!