Manca ancora l’ufficialità, ma ormai l’esito è pressoché scontato. Nonostante le obiettive difficoltà, i malumori britannici ed extraeuropei, e il secco rifiuto degli Usa, il Fondo monetario internazionale avrebbe raggiunto un accordo per un’estensione delle risorse anticrisi fino alla fatidica quota di 400 miliardi di dollari. Lo riferiscono diverse agenzie citando la testimonianza di un funzionario G20 a conoscenza della bozza di accordo che dovrebbe distribuita in giornata. Sarebbero state accolte, dunque, le istanze della numero uno del Fondo Christine Lagarde che, già nei giorni scorsi, aveva sottolineato la necessità di un simile incremento dei fondi a disposizione dell’ente di Washington.
Ancora non è chiara l’esatta distribuzione dello sforzo. Ma qualche ipotesi può già essere fatta. Partiamo dai dati di fatto: in principio il Fondo aveva a disposizione circa 200 miliardi cui se ne sono aggiunti in seguito altri 120 grazie soprattutto allo sforzo del Giappone (60 miliardi), poi integrato dalle erogazioni di Polonia, Svizzera, Scandinavia e altri. In ballo, insomma, 80 miliardi mancanti che, a quanto pare, dovrebbero essere stati sbloccati da una pluralità di donatori. Tra questi, con ogni probabilità, la Corea del Sud, uno dei Paesi più possibilisti della vigilia, e soprattutto la Cina, intenzionata, secondo le indiscrezioni, a venire incontro alle esigenze del Fondo.
Proprio il sì cinese potrebbe aver costituito il passo avanti decisivo per la soluzione del rompicapo. Oggi, fonti britanniche hanno fatto sapere che il Regno Unito non avrebbe fatto un passo prima di conoscere le decisioni di Pechino. Non è escluso quindi che altri Paesi del G20 possano aver fatto il medesimo ragionamento. Nelle scorse ore, il vice ministro delle finanze russo Sergei Storchak aveva dichiarato al quotidiano britannico Daily Telegraph di essere certo del raggiungimento dell’accordo sui 400 miliardi specificando però l’esistenza di una condizione fondamentale posta dai Brics (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica, le cinque principali economie emergenti): il mantenimento del segreto sui dettagli dei singoli contributi. In pratica il Fondo monetario internazionale si impegnerebbe in questo caso a non rivelare l’ammontare esatto dei prestiti concessi dai cinque Paesi.
In attesa delle conferme ufficiali, resta valida ad oggi una sola certezza: gli Stati Uniti non contribuiranno ulteriormente alla disponibilità del Fondo facendo valere il proprio rifiuto di prendere parte a nuovi interventi di sostegno all’Europa. Una posizione da tempo condivisa anche dal Canada. Ieri il ministro delle finanze canadesi Jim Flaherty, citato dal Vancouver Sun, aveva criticato l’Europa per non aver fatto abbastanza con i suoi interventi di risposta alla crisi avanzando una nuova proposta di governance all’interno del Fmi. L’idea di Flaherty è di sottoporre ogni eventuale piano di azione Fmi nei confronti dell’Europa a due voti distinti: quello del gruppo dei Paesi dell’euro e quelle delle altre nazioni. In pratica la richiesta di attribuzione del diritto di veto al gruppo dei Paesi extraeuropei. Una proposta quasi certamente irrealizzabile.
L’ipotesi avanzata da Flaherty, in ogni caso, dice molte cose a proposito del malumore che si percepisce oggi all’interno del Fmi. Il raggiungimento di un accordo sulla cifra delle risorse aggiuntive, infatti, lascia comunque aperto il dibattito sulle modalità di utilizzo di queste ultime. A creare tensione, ovviamente, la recente decisione dell’Europa di accantonare non più di 500 miliardi liquidità ex novo (gli altri 300 sono già impegnati in Grecia, Irlanda e Portogallo) presso il fondo Salva-Stati accogliendo così le richieste del fronte Germania-Olanda-Finlandia, storicamente contrario alla proposta di raddoppio della potenza del fondo sostenuta invece dalla Francia. Proprio questo ennesimo compromesso tra il fronte del rigore e quello degli interventisti alimenta la sgradevole sensazione di un’Europa incapace di mettere in campo tutte le risorse disponibili. Una timidezza di intervento che stona con la richiesta di un coinvolgimento delle nazioni extra-Ue nella risoluzione della crisi continentale.