Riprendo (e concludo) le osservazioni sul rapporto tra danza, corpo, religione, società. E’ dall’antichità che tutti i riti religiosi delle più importanti fedi hanno usato tutti i mezzi disponibili per permettere all’uomo una comunicazione più diretta con la divinità, delle pratiche in grado di trascendere il corpo ed elevare la mente ad un livello superiore, più vicino a dio.
E che i mezzi più indicati per raggiungere le varie forme di trance o estasi fossero il sesso, le droghe e i canti e le danze accompagnati da musica (eh già, proprio quel sesso droga e rock’n’roll degli anni sessanta, ennesima secolarizzazione di un percorso spirituale millenario, nulla di nuovo sotto il sole), gli esseri umani l’avevano capito già dalla preistoria, come ci testimonia più di un affresco rupestre.
Erano mezzi potentissimi, in grado di permettere a chiunque, anche senza bisogno di un sacerdote/intermediario, di provare ad uscire da se stessi, di porsi in maniera non quotidiana, di sentirsi in grado di comunicare con entità superiori grazie ad uno stato alterato di coscienza.
Si pensi solo alla infinita bellezza della ritualità eucaristica, in cui i fedeli mangiano la carne del Cristo e ne bevono il sangue, celebrando in un rito cannibalico/vampiresco un atto di amore assoluto, di una sensualità infinita. Ma poi ti torna in mente al prete, che quando eri bambino ti diceva che non dovevi masticare l’ostia, che era il corpo di Cristo ed era peccato. E ti ricordi che ti chiedevi come era possibile che gli apostoli avessero mangiato il pane spezzato da Gesù senza strozzarsi.
E capisci che tutto ha preso un’altra direzione: il corpo non è più celebrato.
E più le fedi andavano trasformandosi in religioni formalizzate e strutturate e più i riti venivano svuotati dei loro significati originari. I sacerdoti assumevano sempre più importanza come tramite tra uomo e dio. Le droghe vietate, il sesso ridotto a peccato e la danza, la più fisica delle arti se paragonata a musica e canto, relegata ad intrattenimento. E lentamente la danza è scomparsa da molte ritualità. Soprattutto in occidente e da dopo il Rinascimento, come mi fa notare un lettore (che cito volentieri perché ha appena pubblicato un libro dal titolo “Il corpo sospeso. I gesti della danza tra codici e simboli” – Fabrizio Andreella, edizioni Moretti & Vitali, che analizza proprio i rapporti tra anima e rito, corpo e gesto, linguaggio e sacro).
Ovviamente la danza nelle ritualità di moltissime religioni asiatiche o africane è tuttora molto presente, ma pensiamo anche alle religioni sincretiche (quelle che fondono radici animiste africane e cattolicesimo per intenderci) come il Vudu haitiano, la Makumba brasiliana, la Santeria cubana, dove la danza che porta fino all’estasi è una parte fondamentale del culto. O alle confessioni cristiane delle comunità afroamericane degli Stati Uniti, dove canti e balli non sono solo parte integrante del rito, ma in molti casi producono stati di trance profondi.
Anche nell’Islam, se da un lato troviamo i talebani che condannano come peccaminose le arti, danza in primis, dall’altro incontriamo, sul versante più mistico e spirituale, il sufismo, che vede nella danza rotante dei dervisci un mezzo essenziale per arrivare ad un grado di super-coscienza che porta alla comunione con Allah.
E rimanendo in terra di Cristianesimo, anche se la danza è tagliata fuori dai rituali religiosi in realtà basta allontanarsi un po’, per esempio andare a messa in Brasile invece che in Italia, per ritrovarsi in mezzo ad un rito danzato, che segue tutta la liturgia della chiesa romana, ma che non è proprio riuscita ad eliminare il ballo. E anche in Italia, soprattutto al sud, ancora vivono ritualità che conciliano la danza con il cattolicesimo e chi ha visto una tarantolata pugliese “danzare” lo sa.
Insomma, più ci allontaniamo dal “potere centrale” e più la danza riemerge prepotentemente.
E infine ricordiamo che, secondo il Vangelo Apocrifo di Giovanni, Gesù al termine dell’ultima cena disse: “Chi non danza non sa cosa succede”. Perché lo sappiamo, la danza è conoscenza.