Sono andata ieri sera a Parigi a vedere il Don Giovanni, produzione del 2006 dell’Opéra di Parigi, ripresa quest’anno al Théatre de la Bastille con la regia di Michael Haneke, il sulfureo regista austriaco del film La Pianista.
La scena è glaciale. A un piano alto di un moderno edificio di vetro e acciaio, con una vetrata che si affaccia sui grattacieli vicini, i personaggi entrano ed escono da ascensori con accecanti luci al neon e la vicenda si dispiega sul pianerottolo, davanti alle porte grigie degli appartamenti ai quali non abbiamo mai accesso durante i due atti. Com’è il caso in alcuni edifici newyorkesi di lusso, questo moderno ballatoio con vista ospita qualche tavolino e un frigorifero, dove i personaggi vengono a rifocillarsi tra un’impresa e l’altra.
Don Giovanni, è un trader in vestito blu, camicia e cravatta scura, accompagnato da un Leporello complice, anche lui vestito da Wall Street e chiaramente infatuato del seduttore, che sì va in giro a fare conquiste, ma che alla fine cena in duetto con il servo/amico, un sodalizio gay tra uomini che sì, seducono le donne, ma si amano segretamente tra di loro.
Il fisico imponente del baritono svedese Peter Mattei rende la prima scena degna di un poliziesco americano. Donna Anna esce dalla porta dell’appartamento accapigliandosi con lo sconosciuto per cercare di smascherarlo. Interviene il commendatore che sfida Don Giovanni in duello e viene ucciso. La violenza della scena è già una condanna irreparabile e dà il tono a tutto il seguito.
Incapace di amare, Don Giovanni è una specie di gelido maniaco, che alla maniera del protagonista del film Shame, storia di un sex-addict newyorkese alle prese con i sensi di colpa, si porta a letto una donna dopo l’altra senza nessun piacere. E queste ci stanno non perché sono sedotte, ma perché sono schiacciate dalla relazione di potere con il signore. Come un Berlusconi del bel canto, o uno Strauss-Kahn ringiovanito, Don Giovanni si fa tutte quante perché è ricco, potente e aggressivo: se le porta nel suo freddo appartamento dalla strada, brutte ragazze vestite di jeans e maglietta, intimidite da quell’atmosfera agghiacciante, che ci staranno per qualche centinaio di dollari.
La festa di matrimonio di Masetto e Zerlina, una delle scene più allegre, liberatorie ed erotiche dell’opera, con il motivo delle “Giovinette che fate all’amore che fate all’amore, non lasciate che passi l’età…” diventa una riunione di donne e uomini delle pulizie, per lo più immigrati dall’aria triste e sconfitta, che si ritrovano a spazzare il pianerottolo del seduttore. Zerlina ha i capelli raccolti in una coda di cavallo, occhiali spessi e brutti e indossa uniforme e zoccoli. Non cede al fascino del seduttore, ma alla sua potenza, al suo totale dominio sociale, economico e culturale su di lei e Masetto.
La cena finale di Don Giovanni e Leporello, a base di fagiano e Marzemino, l’ultimo disperato tentativo di Don Giovanni di resistere alla sua ora ormai suonata, la fine che lo insegue nella figura del convitato di pietra è, nell’interpretazione del filosofo Sören Kierkegaard, l’ultima sfida dell’ “uomo estetico” alla morte. Don Giovanni sa che è condannato, sa che la vita passa, che è un’assurda vanitas, ma non si piega, e fieramente invita una banda di musicanti ad assistere al suo ultimo pasto:“Già la mensa è preparata/Voi suonate, amici cari/Giacché spendo i miei danari/Io mi voglio divertir.” E invece, nell’interpretazione di Haneke, l’ultima cena è una vaschetta di sushi freddo mangiata sul pianerottolo con Leporello. Davvero qualcuno rimanderebbe l’ultimo istante per succhiarsi qualche sushi in piatti di plastica sul pianerottolo?
Ma che visione è del piacere, della seduzione, pure del peccato? Anche il più moralista dei moralisti sa che si pecca è perché è un gran piacere peccare: quel bicchiere di vino in più cui non sappiamo resistere perché è talmente buono, l’ennesima dieta andata in fumo davanti a un’irresistibile tavolata di amici, l’ennesimo buon proposito di fedeltà tradito da quel sorriso d’intesa…
Opera totale, il Don Giovanni si presta a tutte le interpretazioni. Il tema in re minore dell’ouverture è già anticipazione tragica della fine, come la nascita è anticipazione della morte. Don Giovanni – opera scritta due anni prima della rivoluzione francese – è un misto di inno alla libertà e insieme un’anticipazione del romanticismo, della battaglia estetica contro l’orrido precipizio della fine. Don Giovanni non sa scegliere, non si decide mai, procrastina perdendosi nell’istante e la vita gli sfugge tra le mani, tra burle, risate, fughe rocambolesche e menzogne. Personaggio a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, la sua psicologia è quella dell’eroe (o anti-eroe) romantico, la sua politica quella del libertino. Il sesso, ingrediente-chiave della filosofia libertina, è strumento di liberazione e di vittoria sui rapporti di classe (si ricordi il famoso Catalogo).
E invece, nella morale neo-vittoriana della nostra epoca barbara, dove il libertinismo è diventato pornografia, i rapporti tra uomo e donna gestiti solo dal potere, e dove non c’è spazio per nessun piacere vero che non sia un’inutile corsa a un potere e a un denaro che ci serviranno solamente a trovarci soli in una camera di un Sofitel a guardare un film porno, Don Giovanni non gode, non ama, non vive, se ne sta sul suo pianerottolo, è punito perché è un porco di cui non abbiamo nessuna pietà e nessun rimpianto.
Sono uscita con una grande tristezza, e un’assurda, romantica, sensazione di rimpianto per un’era perduta, forse mai esistita, un’era in cui il sesso, l’amore e il piacere erano strumenti di liberazione e non di dominio e di potere, in cui fuori dalle convenzioni non c’era solo perdizione e punizione, ma c’era, forse, libertà, come recita il nostro eterno alter-ego alla fine del primo atto: “Venite pure avanti, è aperto a tutti quanti, viva la libertà!”