Il Documento di economia e finanza aggiorna al ribasso il quadro macroeconomico e di finanza pubblica 2012 e rinvia al futuro eventuali revisioni più cospicue della crescita 2013. Corregge anche al ribasso le stime degli effetti dei decreti concorrenza e semplificazione sulla crescita. Nel complesso è un utile bagno di realismo. L’incertezza sulle stime anche a breve suggerisce di non adottare nessuna manovra correttiva. Anche perché non è dallo sforamento del deficit che vengono i problemi di finanza pubblica dell’Italia, ma dal debito pubblico. Ma sul debito il Def tace.
di Francesco Daveri* (lavoce.info)
Il Documento di Economia e Finanza (Def) aggiorna il quadro macroeconomico e di finanza pubblica, incorporando il peggioramento del ciclo economico rispetto al dicembre 2011, quando fu approvato il decreto Salva-Italia. Non solo: riporta anche stime più realistiche del potenziale effetto delle liberalizzazioni rispetto al decreto Cresci-Italia.
Nel 2013 niente bilancio in pareggio
In dicembre la crescita economica era stimata a -0,5 per il 2012 e a +1,3 per il 2013. Corrispondentemente, le stime per il deficit pubblico 2012 erano a 1,2 punti del Pil mentre quelle del 2013 riportavano il fatidico zero, il pareggio di bilancio. Ora le stime sono riviste al ribasso: a -1,2 per cento per il 2012 e a +0,5 per il 2013. A fronte della minor crescita attesa, il governo opportunamente è costretto a ridisegnare un quadro più negativo per il deficit: il deficit 2012 salirebbe a -1,7 per cento (rispetto al -1,2 per cento previsto a dicembre) e salterebbe il raggiungimento del pareggio di bilancio per il 2013: il deficit si attesterebbe a mezzo punto di Pil. Nel 2013 mancherebbero cioè 8 miliardi euro al fatidico pareggio di bilancio. Sulla base delle stime del Def, il pareggio di bilancio sarebbe rinviato al 2015. Ma già nel 2014 sarebbe solo 0,1.
Stime plausibili e incerte
Quelle del governo sul Pil sono cifre plausibili? Per la Banca d’Italia, che ha pubblicato sul suo Bollettino Economico numeri molto simili, sostanzialmente sì. Per il Fondo Monetario, un po’ meno: nel suo World Economic Outlook di aprile, il Fondo è stato più pessimista, prevedendo un -1,7 nel 2012 e un -0,3 nel 2013. L’accresciuta variabilità ereditata dalla crisi post-Lehman ha però accresciuto anche l’inaffidabilità delle stime macroeconomiche, anche su orizzonti temporali molto brevi. Lo testimonia il fatto che a fine gennaio il Fondo Monetario prevedeva per l’Italia un -2,2 per il 2012 e un -0,7 per il 2013. Poi si è capito che gli Stati Uniti e la Cina probabilmente faranno meglio del previsto e così anche la Germania. Ed ecco che il 2012 da nero (-2,2) è diventato grigio fumo (-1,7). Modelli diversi danno stime diverse, purtroppo. Le stime del governo italiano sono probabilmente più positive di quelle del Fondo anche perché il modello usato dal governo (un adattamento all’Italia del modello impiegato dalla Commissione Europea) incorpora più efficacemente gli effetti positivi derivanti dalle liberalizzazioni.
Un punto da sottolineare è che il -1,7 previsto dal governo è un numero un po’ più grande di quello che verrebbe fuori dall’applicazione della regola aurea dell’Ocse, condivisa dalla maggior parte degli economisti, regola secondo la quale il deficit pubblico sale di mezzo punto per ogni punto perso di Pil. A causa dell’effetto combinato delle minori entrate fiscali e delle aumentate spese di sostegno all’economia. Secondo la regola dell’Ocse, la minor crescita attesa è di 0,7 punti percentuali (la differenza tra -0,5 e -1,2), il che, a parità di altre condizioni, suggerirebbe un deficit di poco superiore a 1,55 punti del Pil (1,2 + la metà di 0,7, cioè 0,35, è infatti uguale a 1,55). Invece il governo scrive 1,7. Un arrotondamento utile a cautelarsi di fronte al verificarsi di una crescita un po’ inferiore a quella scritta nel Def.
Stime più sensate degli effetti delle liberalizzazioni
Il DEF contiene un altro elemento di realismo, cioè la revisione nettamente al ribasso dell’effetto atteso deldecreto cresci-Italia, cioè del combinato disposto del decreto concorrenza e di quello semplificazione. Inizialmente, come già commentato su questo sito, il governo aveva riportato pubblicamente stime inverosimilmente alte sugli effetti del solo decreto concorrenza: +1 per cento l’anno di crescita aggiuntiva per 10 anni. Ora il Def dà maggiori dettagli e rivede opportunamente molto al ribasso questi effetti. Si parla di un +0,3 annuo derivante dalle riforme nel loro complesso, che sommerebbe a un +2,4 complessivo sul livello del Pil nel 2020. Come si legge nel Piano Nazionale delle Riforme a pagina 37, il +2,4 deriverebbe da tre effetti: da una riduzione di circa due punti percentuali delle rendite (il mark-up) che, sulla base di studi esistenti utilizzati per le simulazioni del Tesoro, darebbe luogo a guadagni di Pil per circa 1,7 punti percentuali al 2020. Poi la maggiore libertà di entrata delle imprese derivante dalla riduzione degli ostacoli alla libera iniziativa darebbe guadagni di efficienza cumulati per altri 0,7 punti. Infine le semplificazioni amministrative e il migliore funzionamento della Pubblica Amministrazione derivanti dal decreto semplificazione darebbero un altro mezzo punto percentuale. In totale, è 2,4 punti di Pil in più. Si tratta di numeri molto più plausibili, coerenti con una valutazione più modesta e realistica del presumibile effetto solo graduale e lento dei vari decreti approvati dal Parlamento. Insomma, il Def certifica che non sarà dalle liberalizzazioni – o almeno non da quelle approvate finora – che l’economia italiana ritornerà a crescere del 2 per cento l’anno.
Niente manovra correttiva
Sulla base del nuovo quadro macroeconomico, ci vorrebbe una manovra correttiva? No, non per ora. Prima di tutto, come detto, le previsioni anche solo sui prossimi sei mesi hanno un ampio margine di variabilità. Dunque il rischio di correggere più di quanto necessario sarebbe concreto. Una previsione si cambia digitando un numero diverso in un file di Excel. Una manovra correttiva taglia i servizi o tassa i cittadini. Meglio andarci piano con le manovre correttive.
C’è poi da ricordare che, a differenza della Spagna, non è il deficit il problema dei conti pubblici dell’Italia, ma il debito pubblico. E invece è sullo stock di debito che si dovrebbe intervenire, con qualche dismissione ma senza altre tasse patrimoniali, anche per segnalare ai mercati che l’Italia non vuole mettere in sicurezza i suoi conti pubblici pianificando una – costosa e rischiosa – sequenza trentennale di avanzi primari. Su questo il Def è purtroppo silente.
*Francesco Daveri è professore ordinario di Politica Economica presso l’Università di Parma. Insegna anche nel programma MBA della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi. Ha collaborato con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e la Commissione Europea. Scrive sul Sole 24 Ore ed è membro del Comitato di redazione de LaVoce.info.
La sua attività di ricerca riguarda soprattutto la relazione tra innovazione, produttività e crescita. Oltre a numerosi articoli su riviste internazionali e italiane, ha scritto Centomila punture di spillo con Carlo De Benedetti e Federico Rampini (Mondadori, 2008), e Innovazione cercasi (Laterza, 2006).
Segui @fdaveri su Twitter, oppure su Facebook.