“Fu l’amianto della Fibronit a uccidere gli operai e i residenti nelle prossimità dello stabilimento”. Con una nuova sentenza, la Corte di Cassazione ha confermato quanto sostenuto dalla procura di Bari e quanto recepito nella decisione dei giudici di Appello: Dino Stringa, amministratore delegato e legale rappresentante della Fibronit del capoluogo pugliese dal 1969 al 1981, è responsabile della morte per “mesotelioma pleurico” di un ex operaio morto nel febbraio del 2006, Francesco Maggio. Una nuova vittoria per i parenti delle tante vittime dell’eternit, dopo quella ottenuta a febbraio a Casale Monferrato, dove però la condanna è stata ben più pesante di quella subita dall’ex dirigente dello stabilimento barese che, a 87 anni, viene punito per un solo caso di decesso rispetto agli almeno 13 registrati nel capoluogo barese.
Cinque mesi e quindici giorni la pena inflitta all’ex amministratore di quella che a Bari è stata ribattezzata la “fabbrica della morte”. Lo aveva deciso la Corte di Appello di Bari a marzo del 2011, riducendo la pena di 8 mesi stabilita due anni prima dal Tribunale in primo grado, in quanto per due degli omicidi colposi contestati a Stringa era intervenuta la prescrizione. la Cassazione ha scritto l’epilogo della vicenda, rigettando totalmente il ricorso della difesa e accogliendo anche la richiesta dell’avvocato Ezio Bonanni, legale delle parti civili nel procedimento.
“L’imputato aveva – scrivevano i giudici di secondo grado – una posizione normativa e funzionale di garanzia dell’incolumità degli abitanti della zona circostante la fabbrica”. La sentenza, quindi, ha riconosciuto la pericolosità dello stabilimento non solo per gli operai ma anche per i residenti nel quartiere Japigia che, non molto distante dal centro della città, ospita circa 80 mila cittadini.
Lo stabilimento era sorto a Bari nel 1933 ed ha chiuso i battenti nel 1985. Nell’area dovrebbe sorgere a breve un parco, non prima che vengano superati una serie di ostacoli amministrativi. Proprio sulla sentenza di primo grado, si legge che già dal 1967 l’azienda dichiarava di aver iniziato opere di miglioria del ciclo di produzione, al fine di salvaguardare l’incolumità degli operai, ma che al tempo stesso “esse furono di lenta applicazione e spesso più apparenti che reali”. Da una delle diverse perizie citate dai giudici, infatti, è emerso come “ancora nel 1984 vi erano situazioni di dispersione di amianto che confermano come sicuramente le opere di bonifica che si davano per acclarate nel 1967 non erano state affatto risolutive”.
“I tecnici consulenti dei datori di lavoro – afferma l’avvocato Bonanni al telefono – hanno provato a negare il nesso di causalità tra le fibre di amianto degli stabilimenti e il mesotelioma, sostenendo che questa patologia può derivare anche dai tetti in eternit delle abitazioni. Noi a questa tesi abbiamo contrapposto migliaia di pagine di letteratura scientifica che dice il contrario, e abbiamo avuto ragione”. Il legale ha anche annunciato che è stata depositata una denuncia presso il Tribunale di Torino da parte dei figli delle vittime, in quanto “gli operai che negli anni hanno protestato sono stati spesso vittime di minacce di licenziamento”.
Il caso di Bari, passato quindi in giudicato, rappresenta una buona notizia e apre nuove speranze anche per i cittadini di Broni, dove l’Eternit, secondo stime a ribasso avrebbe ucciso 700 persone e le famiglie delle vittime attendono giustizia dal processo aperto a Voghera.