In un'atmosfera surreale Vettel conquista il primo posto. Fuori dal circuito le manifestazioni sono proseguite, ma le opposizioni non sono riuscite ad invadere l'autodromo come avevano promesso
La memoria e l’oblio. La memoria è quella delle proteste e degli scontri che continuano da un anno e anche oggi hanno infiammato il Bahrain. L’oblio è quello che come una cappa ha avvolto l’International Bahrain Circuit di Sakhir durante lo svolgimento della gara. Non ce l’hanno fatta i manifestanti a invadere il circuito, come avevano promesso ieri dopo che un attivista, Salah Abbas Habib, è stato trovato morto sabato mattina nel villaggio di Shukhura. L’idea dei gruppi che coordinano le proteste era di riunirsi oggi pomeriggio nel piazzale antistante al nuovo polo universitario di Sakhir, a poche centinaia di metri da dove si sarebbe svolta la gara. Ma tutte le vie d’accesso per raggiungere la lussuosa oasi di vetro e cemento erano blindate.
Intorno al circuito stazionavano un numero ingente di forze dell’ordine, i blindati e l’esercito in assetto da guerra. I metal detector e i cani anti-esplosivo davanti a ogni ingresso. Le guardie armate a passeggiare tra i paddock e gli elicotteri a volteggiare nel cielo. In un’atmosfera surreale, quasi sottovuoto, Vettel al volante della RedBull ha vinto davanti alle Lotus e davanti agli spalti vuoti e silenziosi. Come erano silenti e vuote le parole dei piloti, cui è stato impedito di rilasciare dichiarazioni sulla situazione politica in Bahrain, e le parole non dette dai responsabili delle scuderie, che hanno accettato senza battere ciglio la decisione di Bernie Ecclestone di far disputare il Gran Premio.
Fuori dal circuito il rumore che copriva il rombo dei motori delle macchine è stato quello di una primavera araba che ha scelto il Gran Premio di Formula 1 come obiettivo principale della sua protesta. Sulle barricate, tra gli striscioni e le grida, le bombe molotov e i copertoni bruciati nella capitale Manama e nei villaggi sciiti dove da oltre un anno si protesta contro la monarchia sunnita di re Hamad bin Isa Al Khalifa, c’era anche Zainab. Nome di battaglia sui social network Angry Arabiya, Zainab è la figlia di Abdulhadi al-Khawaja: un attivista arrestato lo scorso giugno e che da 74 giorni è in sciopero della fame. Nonostante gli appelli delle associazioni umanitarie, la monarchia del Bahrain si rifiuta di lasciarlo al governo danese, che ne ha ripetutamente chiesto la custodia (Abdulhadi al-Khawaja ha anche passaporto danese).
Zainab ieri si era recata in ospedale per visitare il padre, ma le è stato impedito di vederlo ed è stata arrestata. Rilasciata nella notte, oggi era di nuovo in piazza a lottare con i suoi compagni per ottenere riforme economiche e sociali. Il nuovo concentramento, vista l’impossibilità di raggiungere il blindatissimo circuito Sakhir, è stato allora organizzato nella piazza del Pearl Roundabout di Manama: dove il 17 febbraio scorso l’esercito inaugurò la repressione aprendo il fuoco su un pacifico campeggio di manifestanti. Lì l’esercito ha sparato sui manifestanti gli oramai famigerati candelotti lacrimogeni che secondo le associazioni umanitarie sono la prima causa di morte tra i manifestanti.
Sarebbero almeno 34 gli attivisti deceduti negli ultimi mesi in seguito a complicazioni dopo aver inalato i gas. Tanto che diverse associazioni cominciano a chiedersi se questi candelotti contengano normali gas lacrimogeni o addirittura gas letali. Un’indagine di Physicians For Human Rights, dopo aver constatato come molte morti siano avvenute dopo la manifestazione di sintomi che nulla hanno a che fare con quelli provocati dai normali gas lacrimogeni, ipotizza che nei candelotti siano contenuti additivi chimici letali. Ma le autorità del Bahrain non solo negano, ma hanno anche imposto ai medici di non inserire i gas lacrimogeni tra le cause di morte dei manifestanti e di classificarle come morti naturali. Morti silenziose, come il GP del Bahrain appena disputato.