Le parole sono come “vecchie prostitute che tutti usano, spesso male”. Il paragone, del poeta greco Ghiannis Ritsos, non poteva sfuggire a Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e parlamentare. All’usura quotidiana del lessico egli ha tentato di opporsi ne “La manomissione delle parole” (7 edizioni con una tiratura di oltre 160 mila copie), un libro colto, misurato, che attraverso un forte scrupolo filologico risponde a “l’esigenza di trovare dei modi per dare senso alle parole: e, dunque, per cercare di dare senso alle cose, ai rapporti fra le persone, alla politica intesa come categoria nobile dell’agire collettivo”.

Per riuscire a “restituire la verginità” alle  parole – ritiene Carofiglio- “dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle”. La “manomissione” del titolo è dunque questa “operazione di rottura e ricostruzione” tesa a ridare dignità alle parole e a evidenziare la necessità di riflettere sul loro significato”.

Mercoledì 25 aprile al teatro Alighieri di Ravenna (ore 20.30) avrà luogo la prima nazionale di una performance d’autore di Carofiglio e Teatro Kismet OperA. Le parole del libro si libereranno dai vincoli della carta: gli spettatori saranno infatti trasportati dall’abilità oratoria dello scrittore e dal suono del fagotto del maestro Michele di Lallo. In una partitura fluida e lieve, si accomoderanno, quasi fossero presenti sul palcoscenico, i grandi di ieri e di oggi, da Aristotele a Cicerone, da Dante Alighieri a Primo Levi, da Italo Calvino a Nadine Gordimer, passando per Barack Obama e Bob Dylan.

Che effetto le fa pensare che salirà sul palco del teatro comunale di Ravenna, intitolato a Dante Alighieri, in una giornata densa di significati come il 25 aprile?

Provo una grande emozione. Più o meno simile a quella che ho provato presentando un mio romanzo nella casa di Thomas Mann a Lubecca, con una gigantografia del maestro alle mie spalle.

Lei cita nel suo libro un passo di Gustavo Zagrebelsky: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia”. Possiamo dunque affermare che la democrazia italiana non gode di buona salute?

Mi permetta di precisare che alla citazione di Zagrebelsky aggiungo una mia riflessione: è importante la quantità di parole conosciute, ma anche e soprattutto è importante la loro qualità, cioè il loro stato di salute. Uno dei problemi della democrazia italiana è il deterioramento di alcune parole chiave del lessico civile. Ho scritto il libro per (cercare di) contribuire ad arrestare questo smottamento della qualità democratica.

Alla recente manifestazione dell’orgoglio padano di Bergamo si sono sentiti cori da stadio e slogan, spesso gridati nei dialetti locali. Quali sono oggi le parole della Lega e che significato hanno?

Le parole della Lega sono essenzialmente suoni, evocazioni primordiali, azioni elementari. La caratteristica del linguaggio della Lega è nell’essere linguaggio privo di significati, azione senza pensiero. Per verificare questa mia affermazione: provate a chiedere a un leghista quali sono i confini geografici della cosiddetta Padania.

Silvio Berlusconi ha sempre fatto un uso attento della comunicazione pro domo sua. Ha operato accostamenti capziosi (come quello tra libertà e liberalismo) e risemantizzazioni di parole d’uso comune come amore, popolo e famiglia. Il ricorso a questo linguaggio è tramontato con il suo governo e la Seconda Repubblica o il germe di una comunicazione malata è ormai endemico nella scena politica italiana?

Per riparare certi danni ci vorrà del tempo ma certamente l’allontanamento di Berlusconi dalla ribalta ha prodotto subito alcuni effetti benefici. Basta guardare certi programmi televisivi, o anche soltanto i telegiornali. Detto questo ci sarà da lavorare: Berlusconi era l’interprete più dotato di questa degenerazione, ma purtroppo non l’unico.

Una delle parole che Lei prende in esame nel libro è “giustizia”. È possibile, a suo avviso, in Italia una riforma della giustizia che ottemperi alle caratteristiche del giusto processo? La lobby parlamentare degli avvocati non costituisce un serio ostacolo?

La lobby degli avvocati -ma anche, va detto, quella dei magistrati- è un ostacolo. Le corporazioni dei giuristi sono tendenzialmente conservatrici e, appunto, piuttosto corporative. Ci vorranno, nella prossima legislatura, una maggioranza e un governo forti, capaci di vincere certe resistenze e, finalmente, di modernizzare la giustizia del nostro Paese.

Il centrosinistra di oggi incarna ancora i suoi tradizionali valori morali o è fermo nella ripetizione di parole d’ordine prive di un reale significato?

Il centrosinistra è oggi un’aggregazione confusa e dai confini ideali piuttosto incerti. È necessario ridefinire senza ambiguità una nuova costellazione di valori di riferimento e un nuovo vocabolario. Propongo un titolo per questa impresa, e lo rubo a un bel libro di Erich Fromm: “la rivoluzione della speranza”.

Lei scrive: “La vergogna non ha necessariamente a che fare con la colpa individuale [..]: è un sentimento indotto anche dalla comune appartenenza, come sapeva bene Hannah Arendt”. Si prova dunque vergogna a sedere in un Senato presieduto da colui che ha dato il nome alla legge 140, denominata lodo Schifani?

Comune appartenenza, appunto. Come si dice nelle sentenze: nel caso di specie difetta il presupposto.

Riforma fiscale più equa, revoca del rimborso elettorale ai partiti, diminuzione dei costi della politica sono alcune delle richieste che gli elettori, trasversalmente, hanno avanzato ai loro rappresentanti. Non le pare che negli ultimi anni il Parlamento abbia agito in conformità alla frase di Scerbanenco che Lei cita nel suo libro: “Vogliono che gli altri stiano al gioco, alle regole, ma loro non ci vogliono stare”?

Nell’ultimo anno alcuni provvedimenti nella giusta direzione – ancorché insufficienti e adottati ob torto collo – ci sono stati. Detto questo, il problema è di una ridefinizione radicale del modo di fare politica, e, direi, dell’idea che la politica ha di se stessa. Ho in mente di scrivere qualcosa su questo argomento, nei prossimi mesi.

Nel suo libro si parla anche di ribellione. Che cosa ne pensa del movimento degli indignati? Si rifanno al libello “Indignez-vous” di Stéphane Hessel, ma quanti di loro lo hanno veramente letto e compreso?

Non molti, temo. L’indignazione che vedo in giro è una specie di rabbia cieca -purtroppo ampiamente comprensibile. Per cambiare il mondo però ci vuole una lucida indignazione e soprattutto la capacità di trasformare la ribellione in una ipotesi di futuro.

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