Il fantasma di Hollande? O quello di Marine Le Pen? Uno spettro si aggira per l’Europa dei mercati finanziari e degli speculatori e non è certo quello del comunismo o di Karl Marx ma piuttosto quello della democrazia che oggi, più che mai, sembra fare a pugni con gli interessi di Borse e operatori. I risultati del primo turno delle presidenziali in Francia ma anche le dimissioni del primo ministro olandese hanno causato un lunedì nero per le Borse europee che in una sola seduta hanno bruciato quasi 160 miliardi di euro.
L’indice paneuropeo Stoxx 600 ha perso il 2,34 per cento corrispondente a 159,5 miliardi di euro di capitalizzazione. Milano ha ceduto il 3,83% mentre lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi è tornato sopra 400 per chiudere a quota 409 punti, in rialzo rispetto all’apertura e ai 397 punti della chiusura di venerdì scorso. Per trovare una giustificazione oggettiva al tonfo delle Borse (Francoforte ha perso il 3,36%, Parigi il 2,83%, Madrid il 2,76%, Amsterdam il 2,56%, Londra l’1,85% e Lisbona l’1,67%) bisogna guardare ai dati diffusi da Eurostat. Nel 2011, il deficit sul Pil nell’eurozona e nell’Ue a 27 è sceso rispetto al 2010, mentre in entrambe le aree è aumentato il debito pubblico.
Nell’area euro il disavanzo sul Pil è sceso dal 6,2% al 4,1%, (dal 6,5 al 4,5% nei 27) mentre il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, nell’eurozona è salito dall’85,3% all’87,2% nell’ultimo trimestre 2011, nell’Ue a 27 dall’80 all’82,5%. Ufficialmente sono quindi le preoccupazioni sui debiti sovrani a spaventare i mercati, ma in realtà è il possibile cambio di rotta della politica dell’Unione Europea con una possibile rottura dell’asse Merkozy e della linea dell’austerity davanti a tutto. Un continente a una sola velocità, quella della Germania, non può reggere a medio e neppure a breve termine. Nel 2012 il prodotto interno lordo tedesco crescerà dell’1,25%, mentre nel 2013 l’aumento arriverà al 2% secondo le stime di primavera sulla produzione di beni e servizi in Germania rese note a Berlino dall’istituto di ricerca economica Iw. «Le preoccupazioni che si erano manifestate nell’autunno del 2011 non si sono trasformate in realtà», ha spiegato Michael Huether, segretario generale di Iw, per questo l’economia tedesca, a differenza del resto dell’eurozona, può crescere anche quest’anno. L’Iw, vicino alle associazioni dei datori di lavoro, fonda sull’aumento della domanda interna le sue stime: «Abbiamo una robusta inversione di tendenza per quel che riguarda la domanda interna». Anche l’export, tuttavia, continua a crescere al pari dell’import, tenendo in positivo la bilancia commerciale. Per l’anno in corso il 40% circa delle aziende tedesche intervistate da Iw prevede un aumento della produzione, contro il 17% che invece teme una contrazione.
In crescita, nei prossimi mesi, continuerà a essere anche l’occupazione: nel 2012 il numero dei lavoratori salirà fino a 41,5 milioni di persone, per arrivare quasi a 42 milioni nel 2013. Le previsioni di Iw superano nettamente quelle di altri importanti istituti tedeschi, che recentemente avevano stimato in un più prudente 0,9% l’aumento del Pil per il 2012. D’altra parte Berlino sta mettendo a frutto i risultati di un passaggio all’euro che l’ha vista stra-vincente come evidenziato da una ricerca di Mc Kinsey: nel 2010, calcolano gli analisti, la presenza dell’unione monetaria avrebbe garantito da sola il 3,6% del Pil dell’area. Come a dire che se vi fossero state ancora dracme, pesetas, lire italiane e marchi tedeschi, la regione sarebbe stata più povera di 322 miliardi di euro. Solo che, spiegano gli analisti, la distribuzione dei vantaggi è stata assai poco equa. I tedeschi hanno guadagnato dalla moneta unica circa 165 miliardi, vale a dire il 6,6% del Pil. E gli altri? Per l’Italia, ha precisato il rapporto, la percentuale scende al 3,1, per la Francia, addirittura allo 0,7. I nodi sono ovviamente due. Da un lato l’export che ha favorito soprattutto Olanda e Germania dal momento che, si ipotizza, in assenza dell’euro marchi e fiorini sarebbero andati incontro nel decennio a un apprezzamento eccessivo. Non è un caso, rileva quindi McKinsey, che la bilancia commerciale sia andata fortemente in attivo in Olanda, Austria e Germania (con un surplus medio pari rispettivamente al 6, al 4 e al 2% del Pil) scivolando al contrario verso il passivo in Grecia, Portogallo e Spagna (-12, -10 e -6%).
Andrea Di Stefano è direttore del mensile Valori