Politica

Il trono vuoto della politica

II segretario di un importante partito italiano se ne va, scompare, non si trova più. Non è mai accaduto. Non si può dire: non troviamo più il segretario. Bisogna sostituirlo subito. Per fortuna il segretario scomparso ha un gemello. Identico, tanto che le televisioni non noteranno. Ma è un uomo profondamente diverso. Per esempio, è un filosofo. E di politica, nel senso in cui si intende la parola (“saperci fare”) non sa niente. Comincia per forza una storia completamente diversa.

È il romanzo di un regista diventato scrittore, Roberto Andò, (“Il trono vuoto”, Bompiani) che ha trovato una soluzione per uscire dal peggio. Ma è realtà romanzesca, naturalmente. E per quanto ben scritto, non ci porta fuori dalla politica così come la stiamo vivendo. Dice però con chiarezza che siamo arrivati a uno strano posto di blocco. Se ne esce solo con l’immaginazione. Però siamo costretti a constatare che, tranne i cittadini, il senso del tempo tragico che stiamo vivendo non ha raggiunto nessuno. Ognuno – tra i politici non ancora scomparsi – è pronto a dire che il momento è difficile. Ma a tutti loro sembra sfuggire la differenza fra malessere e disperazione. Questo salto si nota se entri e esci dai dibattiti della politica. Dentro la politica non tutti sono pazzi e non tutti sono in vendita come sentite dire. Ma anche nelle circostanze migliori (che certo non sono tante) ascoltate cose giudiziose che sarebbe stato utile dire trent’anni fa o forse trent’anni da adesso, ma che, in tempo reale, non hanno alcun rapporto con ciò che sta realmente accadendo.

Sembra restare invisibile il contesto in cui alcuni si uccidono (non appare più un isolato scatto patologico), molti promettono di non votare più (il numero, dicono i sondaggisti, è altissimo), molti si organizzano in colonne di una protesta cupa di cui non si ha memoria, perchè chi partecipa sa benissimo di entrare in un vicolo senza uscita, un grido alto ma diretto a nessuno e senza speranza. Ora il treno della politica procede alla luce artificiale di un governo tecnico che è un terzo e diverso protagonista dello strano gioco. Non ha l’ostinata persuasione di continuare a esistere che anima ancora la politica “regolare”. Non ha la disperazione dei cittadini che molto rapidamente, negli ultimi mesi, sembrano avere abbandonato ogni credo. No, il terzo protagonista ha severe misure da proporre per “gli altri”, non deve tormentarsi su se stesso, e sembra avere adottato la regola che le scuole di medicina americane inculcano fin dall’inizio ai giovani studenti: “Ricordatevi che i malati non siete voi”.
Questo atteggiamento può portare a un deficit di empatia, ma consente di programmare, quando è necessario, cose terribili, perchè l’importante non è l’approvazione del paziente ma l’efficacia della cura. Non tutti guariscono, e il medico passa ad altro. Altrimenti incasserà gratitudine, ma passerà ad altro comunque.

Tutto ciò per dire che la morsa che si stringe intorno alla politica non si può allentare o distrarre indicando i “tecnici” e le loro decisioni, come la causa di tutto. I politici devono sapere (lo avranno capito tutti?) che i cittadini non sono in così ansiosa attesa di qualcosa di meglio da loro. Sono in cerca di punizione. E conta poco se sia logico o illogico. Conta poco se i cittadini non stanno attenti a quanto funzionerebbe la nuova idea appena annunciata di cambiare così e così il finanziamento della politica, e a come si distraggono facilmente, quegli stessi angosciati cittadini, se parli, pur con serietà e competenza, di una o dell’altra nuova legge elettorale.

In questo mondo diviso fra creditori e debitori, dove i creditori non danno pace e non vogliono sentire ragione, i cittadini si sentono creditori e le ragioni sembrano a loro enormi. Sbagliano? Temo di no. Ma se anche fosse, non è il punto. Non c’è dubbio che essi sono in diritto di esigere la restituzione di ciò che hanno pagato, o in danaro o in fiducia o in passione e sostegno politico. E poi è un classico evento della Storia che anche chi non ha pagato nè in un modo nè in un altro, si unisca al corteo, che non è più di protesta ma di distacco. Sta creandosi una cultura del sommerso politico che si nota poco nelle piazze. È una fuga dai partiti di cui non si conosce ancora il percorso. Non si sa se si dirigerà verso il palazzo o no. È una cultura – si può vedere dagli infiniti documenti in rete – fraterna per chi la vive insieme, dalla stessa parte, e inesorabilmente scheggiata dove prima passavano i contatti con la politica.

La definizione di “antipolitica” è piccola. Ciò che sta accadendo aspetta ancora la sua definizione, fra anarchia, solitudine, disperazione e rivolta. Nella vera vita non c’è il gemello del segretario, che sembra uguale, ma pensa e agisce in un modo che sembra folle, e cambia tutto (come sarebbe accaduto per Robert Kennedy, se non lo avessero ucciso). Lo spazio in cui dovrebbe materializzarsi il coraggio di far nascere un’altra vita pubblica, che si chiami o non si chiami “politica”, resta vuoto. Al momento ci sono luci artificiali e alcune gelide infermerie, contro la politica come clinica di lusso che serve solo alcuni privilegiati da centomila euro di diamanti. Il pronto soccorso a volte salva la vita, ma è un luogo duro, anche scoraggiante. Il rischio vero, il rischio spaventoso è che non si presenti nessuno.

Il Fatto Quotidiano, 22 Aprile 2012