“La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” (Paolo Borsellino)
Non ho titolo per commentare quello che è successo a Genova se non quello dell’appassionato di sport, che in gioventù seguiva tutto quello che passava nella Tv dell’epoca, soprattutto calcio of course. Calcio che ho poi abbandonato definitivamente il 29 maggio 1985, la notte dell’Heysel. La data l’ho recuperata da Google, ed inserendo “Heysel” nel motore di ricerca un link proposto è titolato “-39”. Cliccandoci sopra si finisce sulla foto di 8 persone, asseritamente di un club di tifosi, che hanno una maglia che reca questa scritta, definita in un contesto ultrà “infame”. Tanto per dire a che punto si possa arrivare e come sarebbe facile scagliarsi con violenza contro queste derive francamente sub-umane. Ma è più complesso di così.
“Infame”, come “onore” e “rispetto”, è parola manomessa nel suo autentico significato dalle Mafie. Ma anche in altri contesti la manomissione delle parole, perfettamente descritta da Gianrico Carofiglio, fa più danni della grandine. “Infame” diventa così chiunque non rispetti i codici non scritti, di cui depositari sono pochi e garante è la forza. Per ristabilire l’ autentico significato di quelle nobili parole, lo sport sarebbe il veicolo migliore. Dico “sarebbe” perché invece anche al suo interno le parole in questione vengono distorte e piegate ad interessi e convenienze, anche solo quelle di una striminzita vittorietta rubacchiata.
E’ un problema squisitamente culturale, nel senso più pieno del termine. Nel pomeriggio di Marassi non ci sono i buoni contro i cattivi, anche se non tutti sono cattivi. Non ci sono pochi delinquenti che tengono ostaggio la maggioranza silenziosa, anche se ci sono alcuni delinquenti. E non c’è la morte dello sport romantico ucciso dal business, come si tromboneggia per comodità e pigrizia.
In quelle scene già viste e riviste, a cambiare sono solo modalità e pretesti, ci siamo noi. Una società in cui trionfano antagonismo e protagonismo, ci vuole sempre un nemico ed un posto in prima pagina. In cui vince la devastante cultura dell’appartenenza e dell’omertà. In cui i simboli, come la maglia, diventano barzelletta invece che valore. In cui si riconosce diritto di cittadinanza a chi non lo deve avere. E quindi in cui il compromesso, povero Dottore Borsellino, non puzza perché ci turiamo il naso. E la contiguità complice, con gli ultrà per esempio, diventa abitudine invece che nemico da combattere per sentire il fresco profumo di libertà.
Sarebbe bello poter dare la colpa a qualcuno e lavarci la coscienza. Pensare che “noi” degli altri sport siamo migliori. Che è colpa dei beceri figuri che si godevano il quarto d’ora di notorietà, dei tutori dell’ordine pubblico. Oppure dei media, di quelli che scoprono tutto sempre “dopo”, dei corrotti e degli eterni trattativisti per il nostro bene che vengono incredibilmente fatti passare per eroi.
Tutti questi, ed altri, hanno sbagliato pesantemente. Ma finchè la lotta a questi fenomeni sarà una distaccata (e inefficace) opera di repressione, i fenomeni torneranno a galla, proprio come quella Mafia che continua a macinare consenso assieme a soldi e morti. Finchè non si comincerà a rifiutare davvero quel compromesso che impera a tutti i livelli nella società (come nelle società sportive) non saremo mai davvero liberi. E neppure credibili nel dire “vergogna” o auspicare pene esemplari.