Pubblichiamo uno stralcio del libro di Peter Gomez e Leo Sisti “L’intoccabile. Berlusconi e Cosa Nostra” (edizioni Kaos) sulla vita di Filippo Alberto Rapisarda, l’imprenditore amico dei boss di Cosa Nostra per cui Marcello Dell’Utri lavorò tra il 1977 e il 1982. Rapisarda è morto l’anno scorso. Molte volte ha promesso di “parlare”, altrettante si è tirato indietro. Si è lasciato andare in alcune interviste e davanti ai giudici, ultimi quelli del processo palermitano per mafia a Marcello Dell’Utri. Ma poi ha sempre fatto marcia indietro, in un eterno stop and go della memoria. Anni fa disse di Dell’Utri: “Era un mio uomo, lavorava per me, a metà degli anni Settanta. Poi mi ha tradito e se n’è andato a lavorare per un giovane palazzinaro, un certo Silvio Berlusconi“.

L’AMICO DEGLI AMICI

Il diploma di ragioniere lo aveva preso a Palermo. Il master di mago della finanza glielo aveva dato gratuitamente lo Stato dopo un corso di 5 anni, due mesi e 15 giorni alle Mantellate, il carcere di Firenze. Grazie a quel “premio’’, guadagnato con un duro tirocinio fatto di fallimenti, assegni a vuoto, truffe e perfino accuse di atti osceni in luogo pubblico e di porto abusivo d’armi, Filippo Alberto Rapisarda, classe 1931, era ritornato a Milano nell’estate del 1973. Adesso, dopo la lunga vacanza dietro le sbarre, sul suo biglietto da visita compariva un rassicurante “Dott.”, segno che l’uomo, nonostante il certificato penale già allora lungo 13 pagine, voleva fare le cose in grande.

Fino a quel momento, pur vantando più di una conoscenza nell’Onorata società, Filippo Alberto non era andato oltre gli affari di piccolo cabotaggio. Giri di soldi minimi che però gli avevano permesso di entrare in contatto con burosauri del parastato democristiano come il presidente dell’Ente minerario siciliano (Ems) Graziano Verzotto, amico al nord del numero uno dell’Eni Enrico Mattei, e al sud del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina e dei fratelli Calderone (i capibastone di Catania). Secondo i settimanali dell’epoca, anzi, il suo prestigio era aumentato proprio per i legami con l’entourage di Verzotto: Rapisarda, una volta finito in galera, aveva taciuto i nomi degli importanti sponsor politici. Ancor prima dello scoppio dello scandalo per i fondi neri dell’Ems accantonati da Verzotto al Banco di Milano (diretto da Ugo De Luca, legato a Luciano Liggio e a Michele Sindona), lui che di quella storia conosceva molto era riuscito a non aprir bocca.

Il giovane Filippo Alberto, insomma, aveva dimostrato sufficiente fegato per meritarsi una seconda, magnifica occasione: investire al nord i soldi degli amici degli amici. Gli inizi sono come sempre difficili. Per sfondare, per arrivare alla guida di quello che sarebbe stato propagandato come il terzo gruppo immobiliare italiano, Rapisarda si affida agli amici, alle banche e alle donne. Filippo Alberto non è bello, ma è affascinante. Così, dopo aver scelto quale commercialista un formidabile lasciapassare verso il sistema bancario come il futuro rettore della Bocconi Luigi Guatri, l’ex galeotto siciliano si guarda intorno e adocchia una signora poco più che quarantenne sposata a un uomo ricchissimo, di gran nome, e soprattutto molto più vecchio di lei. La signora, di Filippo Alberto si fida. Lui pensa e sogna in grande, e grazie ai terreni della donna, dati in garanzia, riesce a ottenere dall’Istituto bancario italiano (Ibi) quasi due miliardi di aperture di credito; poi acquista una piccola casa editrice, la System Press, nata nel 1973, e ne muta la ragione sociale. Così nel 1974, prima in sordina poi con clamore, comincia a operare la Inim-Internazionale Immobiliare, di cui Rapisarda assume, dopo pochi mesi, la direzione generale. È il primo mattone di un impero che arriverà rapidamente a contare ben 67 società con centinaia di miliardi di fatturato.

Per crescere, per sfondare, per riuscire a entrare in concorrenza con l’Edilnord di Silvio Berlusconi e con la Beni Immobili di Anna Bonomi Bolchini, occorrono però i capitali. Rapisarda li cerca e li trova in Sicilia, dove è in grado di bussare a qualunque porta. Nato a Sommatino, in provincia di Caltanissetta, Filippo Alberto ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza a Palermo bighellonando da un quartiere all’altro insieme a gente che aveva l’omertà nel sangue: i figli e i nipoti dei boss. A Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà, e perfino ai fratelli Bono, Rapisarda aveva stretto la mano da ragazzo, all’epoca in cui spesso nascono le amicizie destinate a durare una vita. Con Alfredo Bono aveva anche condiviso, negli anni belli di Palermo, una sfrenata passione per le auto da corsa e le fuoriserie. Simpatico, intelligente, ma capace anche di scoppi d’ira di violenza inusitata, Filippo Alberto, nonostante le pessime frequentazioni, non aveva però mai corso il rischio di essere “combinato’’. Nel suo albero genealogico c’era una “tara ereditaria’’ sulla quale la mafia non è mai stata disposta a sorvolare: la divisa scura di un padre carabiniere. Ma anche senza diventare uomo d’onore, Rapisarda era comunque in grado di primeggiare nella zona grigia contigua a Cosa nostra. E infatti per fare il gran balzo verso l’olimpo della finanza Filippo Alberto si rivolge a un giovane ingegnere di Villabate, Francesco Paolo Alamia, legatissimo all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (un politico già allora nelle mani di Totò Riina).

L’incontro tra i due avviene nel 1975, quando il finanziere è alla disperata ricerca di dieci miliardi necessari per ottenere l’assegnazione del concordato fallimentare Facchin & Gianni, una delle più antiche e celebri immobiliari di Milano. Mettere le mani su quella società è un grande affare: la Facchin & Gianni possiede un milione e quattrocentomila metri quadrati di terreni a Peschiera Borromeo, alle porte della metropoli, ideali per costruire una città satellite sul modello delle confinanti Milano San Felice e Milano 2. Ma per presentarsi in Tribunale a rilevare il concordato non bastano i soldi. Serve anche un nome pulito da spendere davanti ai magistrati. E Alamia, all’epoca assessore al Turismo del Comune di Palermo, con la sua faccia molle da democristiano rispettabile, con la «fraterna amicizia» che lo lega a Ciancimino, con le sue due lauree (in ingegneria e in giurisprudenza), è senz’altro la persona giusta.

Rapisarda e Alamia si incontrano a Firenze presentati da Rocco Remo Morgana, un siciliano di Mazzarino dichiarato delinquente abituale nel 1966. Morgana è socio dell’assessore in una serie di Srl proprietarie di immobili in Toscana, società che il Nucleo operativo dei carabinieri di Pistoia ritiene una «copertura per riciclare il denaro sporco». Ai magistrati, Morgana riferirà: «L’incontro avvenne all’hotel Baglioni. Inizialmente io ero scettico. Avevo sconsigliato Alamia di entrare nell’affare Facchin & Gianni perché sapevo che Rapisarda era appena uscito di prigione e che non aveva alcuna disponibilità finanziaria. Alamia però fu rassicurato della bontà dell’affare da un palermitano, del quale non riesco a ricordare il nome: abitava a Milano e lavorava all’ortomercato. Rammento che questo palermitano disse allo zio di Alamia, Mommino Terranova, che l’affare era conveniente». Che lo sponsor di Rapisarda fosse un uomo d’onore è più di un sospetto. Mommino Terranova, infatti, non solo frequenta abitualmente soldati e mammasantissima, ma ha anche per genero un boss: Biagio Pitarresi, che verrà ucciso dai corleonesi durante la seconda guerra di mafia.

Francesco Paolo Alamia – racconteranno poi i pentiti – è considerato «vicino» a uno dei più spietati killer di Ciaculli, Pino Greco detto “Scarpuzzedda’’, divenuto tristemente celebre nei primi anni Ottanta per aver strappato un braccio, prima di ucciderlo, al figlio quindicenne di Totò Inzerillo. Nelle casse della Inim e delle società collegate – quasi tutte con sede nel cuore della vecchia Milano, in un palazzo cinquecentesco in via Chiaravalle n° 7/9 – cominciano così ad affluire decine di miliardi. Rapisarda e Alamia operano allo scoperto. La Inim arriva a sponsorizzare il pilota di formula uno Carlos Reutemann, la polizia sembra avere le mani legate, e a stupirsi per le spericolate imprese finanziarie di quello che viene subito ribattezzato il «clan dei siciliani» rimangono solo i giornali.

L’Espresso’’ segnala come i finanziamenti, oltre che dalle banche, giungano all’Inim direttamente dal sud Italia in grosse valigie piene di contanti, ritirate alla Stazione centrale. Finché il meccanismo non s’inceppa, la cosa non fa troppo rumore. Solo a Torino, dove l’Inim ha in animo d’impiantare una delle sue settanta filiali, i carabinieri cominciano a guardare con curiosità all’accoppiata Alamia-Rapisarda. E quando il 5 marzo 1975 l’imprenditore immobiliare Renato Lavagna rimane vittima di un sequestro, gli investigatori battono – vanamente – una pista che porta a Filippo Alberto Rapisarda: per loro il basista del rapimento potrebbe essere lui. All’ombra della Mole, infatti, Renato Lavagna ha venduto alla Inim un appartamento in corso Turati, ma dietro l’affare c’è un’inestricabile girandola di cambiali che il 12 dicembre 1978 porterà il giudice Aldo Cuva a scrivere: «Sulla base di tali acquisizioni si è legittimamente ingenerato il sospetto che il Rapisarda non sia alieno da attività oscure qualificabili come illecite. Interesserebbe verificare se egli non sia coinvolto in attività connesse a sequestri di persona, e se la sua attività imprenditoriale finanziaria costituisca un appannaggio per mascherare complicità od operazioni di riciclaggio di denaro. A tali sospetti concorrono i suoi precedenti penali, la sua condotta di vita anteatta (è stato sottoposto dalla Questura di Palermo a misura di prevenzione speciale per presunti contatti con le cosche mafiose) e la sua imponente situazione patrimoniale che sembra ingiustificabile».

Dubbi pesanti, che il giudice Cuva aveva continuato a coltivare anche dopo l’interrogatorio di Rapisarda, avvenuto due anni prima, il 5 maggio 1976. Quel giorno il finanziere si era presentato in tribunale spontaneamente, accompagnato da un difensore d’eccezione, il professor Giovanni Conso. E dopo aver dichiarato come titolo di studio un diploma di geometra (che poi negli anni Ottanta si trasformerà misteriosamente in una laurea in giurisprudenza), aveva messo nero su bianco delle dichiarazioni importantissime per comprendere la vera storia della Inim: un gruppo che già allora – secondo l’indiziato di sequestro – aveva «un valore di 80 miliardi». Con Cuva, Rapisarda ammette infatti che la società non è di sua proprietà. «In seno all’Inim», dichiara, «ho la disponibilità e la apparente titolarità di azioni nella misura del 38 per cento che, per ragioni fiscali, mi sono state intestate da altre persone, tra le quali la signora Angela Delitala». I nomi dei reali proprietari di questo impero non si conosceranno mai ufficialmente.

Nel 1979, quando, inseguito da un mandato di cattura per la bancarotta fraudolenta di una delle sue aziende, Rapisarda ripara in Francia, in un’intervista si limiterà a parlare di gente abituata a non andare troppo per il sottile: «I finanziatori occulti dell’Inim hanno giurato vendetta nei miei confronti. Sono costretto a vivere alla macchia. Ho un debito nei loro confronti, ma anche se pago entro la data che mi hanno imposto, la fine del 1980, dovrò egualmente temere per la mia vita. Perché oltre ai soldi quelli esigono un assoluto silenzio. Sanno infatti che io conosco molte cose che possono far tremare tanta gente importante. Ma dovrebbero anche sapere che se mi succederà qualche cosa verranno fuori i documenti che sono depositati in un posto sicuro sicuro». Basta dare un’occhiata dietro gli scuri di via Chiaravalle per capire che già allora Rapisarda era una specie di Giano bifronte capace di trattare da una parte con boss di Cosa nostra come Bontate e i fratelli Bono, e dall’altra di avere rapporti professionali e amichevoli con la crème della società civile.

La doppiezza: una sua caratteristica evidente già nel 1977. Quell’anno, per ottenere dalla Questura di Palermo la restituzione della patente che gli era stata sequestrata quasi dieci anni prima, Rapisarda riesce a farsi raccomandare da un influente componente del Consiglio superiore della magistratura: il giudice Aldo Rizzo. Rizzo, con tutta probabilità, non ha però la minima idea di chi sia realmente la persona della quale sta perorando la causa. Stando a un appunto allegato alla richiesta di restituzione del documento, l’intervento in favore del finanziere siciliano era stato richiesto al magistrato da un collega del Csm. Nella nota della polizia questo nome, manoscritto, c’è: inizia per C, ma non è comprensibile.

LA COMMEDIA DEGLI EQUIVOCI

A giudicare dalle entrature del suo direttore generale, l’Inim sembra dunque muoversi come una piovra. E come la piovra (ma con la P maiuscola) si regge anche sull’arte del dire e non dire. Un’arte nella quale lo stesso Francesco Paolo Alamia è un vero maestro. Alamia non si fa problemi ad affrontare i giornalisti. Li riceve a Milano nella lussuosa sede dell’Inim di via Chiaravalle, o in quella altrettanto sfarzosa di via Mariano Stabile a Palermo, e sorridendo ammette con candore: «È chiaro, i soldi non sono miei. Sono di una ventina di gruppi e persone la cui identità per correttezza non posso rivelare». Ovviamente di mafia l’assessore non parla mai. Rapisarda invece è un chiacchierone, e in privato, con i suoi impiegati, non riesce a tenere a freno la lingua.

Angelo Caristi – uno dei suoi più stretti collaboratori, oggi legato a Publitalia da un contratto di consulenza – ricorderà nel 1996: «Rapisarda ci diceva sempre che il denaro che lui investiva do-veva essere restituito ai reali proprietari perché si trattava di persone pericolose. Con noi lui si vantava di essere il braccio finanziario di ambienti affaristico-malavitosi». Con i dipendenti, Filippo Alberto fa esplicitamente i nomi di Bontate e Teresi, ma con tutta probabilità fra i suoi referenti c’è anche Vito Ciancimino. L’ex sindaco sembra infatti appoggiare l’avventura della Inim dall’esterno. «È vero, sono la mente di molte operazioni oltre lo stretto» ammette nel corso di un’intervista. E Alamia, tanto per chiarire il concetto, si lascia sfuggire un commento che sembra tratto da una sit-comedy: «Vista la sua competenza in materia urbanistica, Ciancimino potrebbe essere un nostro consulente».

Con queste solide radici siciliane, l’Inim a metà degli anni Settanta ha davanti a sé un roseo futuro. Rapisarda e l’assessore si rimboccano le maniche. Nel giro di tre anni il gruppo acquisisce aziende su aziende. E non solo immobiliari. La vera sfida è rappresentata dal settore dolciario-alimentare, un’area di mercato formata da imprese tra le più antiche d’Italia con stabilimenti situati quasi sempre in zone edificabili. L’Inim rileva la gestione di tre aziende che producono il cioccolato Talmone, i biscotti Maggiora e il caffè Cuoril. Poi tocca alla Venchi Unica, storica società torinese che già aveva dovuto subire l’assalto di un altro bancarottiere con solidi agganci mafiosi: Michele Sindona. Al clan dei siciliani ovviamente non fanno gola torte e cioccolatini, ma il terreno al centro di Torino dove è stata costruita la fabbrica della Venchi. L’Inim, come sempre, si inserisce nel fallimento, affitta gli impianti, promette investimenti. Ma le banche chiudono i cordoni della borsa, il Comune rifiuta di rendere residenziale l’area Venchi di piazza Massaua. All’improvviso vengono a mancare i capitali, e per tutti gli amministratori l’accusa è di bancarotta fraudolenta. Quasi contemporaneamente viene aperto il fronte della chimica.

Ma è un altro buco nell’acqua. Nel mirino c’è una società svizzera, la Orinoco, in joint venture con l’Ente minerario siciliano nella Chimed, alla quale erano stati affidati gli appalti per la costruzione di un polo chimico a Termini Imerese. È un business dove, almeno sulla carta, i finanziamenti pubblici regionali avrebbero dovuto essere elargiti a piene mani. L’operazione, condotta secondo il quotidiano “L’Ora’’ di Palermo tramite la Amincor Bank di Sindona, va invece male, e altri miliardi spariscono nel nulla. Gli investitori rumoreggiano. Il sodalizio tra Rapisarda e Alamia finisce: l’Inim si divide letteralmente in due. Da una parte i cianciminiani, dall’altra Rapisarda, il quale nel frattempo ha imbarcato nella sua ambigua impresa due uomini uguali come due gocce d’acqua, due gemelli: Alberto e Marcello Dell’Utri.

Il 1° novembre 1978 il “Sole 24 Ore’’ scrive: «Il gruppo si è spaccato in due tronconi… Ad Alamia è rimasta la Inim svuotata però delle sue parti più interessanti (vedi la Facchin & Gianni e l’impresa di costruzioni Bresciano), passate al gruppo concorrente (Rapisarda) che le ha raccolte sotto l’ala della Gestim. A sua volta la Gestim è controllata dalla Intercom, una finanziaria con un capitale di 2 miliardi (in attesa di aumento) che svolge la sua attività nel settore immobiliare e di import-export». E il settimanale “L’Espresso’’ aggiunge: «Da una parte sono andati Alamia e Angelo Caristi, rispettivamente presidente e amministratore delegato dell’Inim, dall’altra il direttore generale Alberto Rapisarda e Marcello Dell’Utri, ex braccio destro di Silvio Berlusconi. Alamia e Caristi hanno rifondato la Inim, mentre Rapisarda e Dell’Utri hanno conservato la prestigiosa sede sociale». Visto col senno di poi, questo scontro all’interno dell’Inim sembra una tetra avvisaglia della seconda guerra di mafia che di lì a due anni insanguinerà la Sicilia. Su Alamia, attraverso Ciancimino, si allunga l’ombra di Totò Riina.

Dietro Rapisarda, invece, si intravede il marchio di fabbrica della famiglia di Santa Maria del Gesù e del suo leader, il principe di Villagrazia Stefano Bontate. Il faccia a faccia, insomma, è fra due titani, e alla fine – stando a una ricostruzione dell’“Espresso’’ del maggio 1979 – ci scappa anche un cadavere eccellente: quello del segretario provinciale della Dc palermitana Michele Reina. Al centro di tutto c’è la storia di una mazzetta da 350 milioni sull’appalto per la strada Castelvetrano-Ganci. Quei soldi, secondo quanto racconta il capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano al giornalista Mario La Ferla, sarebbero passati di mano in mano partendo da un costruttore legato a Cosa nostra per finire poi in una cassetta di sicurezza di proprietà di Reina. Sulla carta, però, il destinatario finale della tangente doveva essere Alamia che – come scrive il quotidiano siciliano “L’Ora’’, riassumendo il servizio del settimanale – ne aveva bisogno «per salvare l’Inim coinvolta nel fallimento della Venchi Unica… Ma Reina non li molla decretando così il crac della finanziaria cui Ciancimino aveva prestato la sua consulenza e forse anche un po’ di soldi.

A questo punto “ad uno sgarbo si risponde con un altro sgarbo. E il 9 marzo Reina viene ucciso. Il 23 dello stesso mese la magistratura di Torino ordina l’arresto dell’intero consiglio di amministrazione dell’Inim’’…». Ciancimino, da vero uomo d’onore, non ricorre alle querele. Si limita a rilasciare un’intervista nella quale difende a spada tratta Alamia e attacca Rapisarda e i suoi referenti: «La mia amicizia verso Alamia era e resta immutata. In questa vicenda dell’Inim è un truffato, me lo ha detto lui e io gli credo. Quel Rapisarda gli ha fregato quello che aveva e anche quello che non aveva. Alamia è un amico, un galantuomo e una persona per bene. Ma non è solo la mia opinione. Molti mi hanno telefonato dicendomi le stesse cose. E questo per me è motivo d’orgoglio».

L’omicidio Reina rimarrà senza un movente ufficiale. L’ordinanza della magistratura di Palermo sui delitti politici lo ammette in modo esplicito. Ecco allora che, nella storia finanziaria della mafia, l’antico palazzo milanese di via Chiaravalle – cuore dell’impero Rapisarda – diventa importante almeno quanto un piccolo bilocale distante solo trecento metri dalla sede dell’Inim: gli uffici della Citam di via Larga 13, dove i boss milanesi di Cosa nostra avevano aperto, con la complicità di Luigi Monti e Antonio Virgilio, una serie di società specializzate nella commercializzazione di prodotti caseari. In quelle due stanze, dietro ai formaggi e ai latticini fanno capolino truffe alla Cee: mediante la vendita, anche ad aziende alimentari di primo piano, di derivati del latte destinati alla fabbricazione di mangimi per animali.

La Criminalpol sospetterà a lungo che l’ufficio di via Larga sia servito da base per il riciclaggio delle narcolire. È certo invece che negli uffici della società, diretta dal palermitano Pasquale Pergola, erano di casa uomini d’onore del calibro di Ugo Martello (detto Tanino), di Tommaso Buscetta, dei fratelli Bono, e di Gaetano Carollo: il sottocapo della famiglia di Resuttana che – secondo il pentito Gaspare Mutolo – era solito affidare i suoi capitali sporchi da riciclare al costruttore siciliano Salvatore Ligresti. Tutta gente che spesso, dopo un salto alla Citam di Pergola, faceva due passi fino a via Chiaravalle. Racconta Rocco Remo Morgana: «Dal 1975 al Natale del 1978 gli uffici dell’Inim erano frequentati da persone di origine siciliana tra i quali ricordo Mimmo Teresi, Stefano Bontate, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, e uno dei fratelli Bono, credo che si trattasse di Pippo. Io personalmente in via Chiaravalle ho incontrato più volte Bontate e Teresi».

Per chi era di casa in via Larga, insomma, quanto accadeva a trecento metri di distanza aveva ben pochi segreti. Per capire bastava ascoltare in silenzio senza fare domande. Non essere troppo curiosi è del resto una delle regole fondamentali di Cosa nostra. Una di quelle norme non scritte alle quali si era attenuto per tutta la vita anche l’uomo che finirà per incastrare senza volerlo Rapisarda e Dell’Utri, confermando i loro legami con Bontate: l’ultrasettantenne Pasquale Pergola, ex socio di Martello e dei Bono e soprattutto, negli anni Sessanta, grande amico di Buscetta.

I FLUSSI AMERICANI E I DUE RACCOMANDATI

Nel 1994 gli uomini della Dia nascondono una microspia in un appartamento di via Passione 9, a Milano, dove Pasquale Pergola – soprannominato “Bebè’’ – vive con la figlia Bettina e la moglie Marisa. Gli investigatori cercano la prova dei nuovi affari conclusi da Pergola con l’ex socio Ugo Martello e, andando a caccia di soldi sporchi, trovano inaspettatamente la chiave per capire l’origine delle grandi fortune economiche di Rapisarda. È proprio Bebè a fornirla, attraverso una lunga chiacchierata con la figlia. Bettina vuole sapere dal padre chi sono Vittorio Mangano, Filippo Alberto Rapisarda e Marcello Dell’Utri, tutti personaggi che in quei mesi, dopo la nascita di Forza Italia, vengono evocati da alcuni giornali come fantasmi di un passato o-scuro nascosto alle spalle di Silvio Berlusconi. E Pergola non ha difficoltà a spiegarlo.

«Stefano», le dice riferendosi a Bontate, «conosceva lui, Rapisarda, non è che conosceva Tanino [Martello, ndr]. Allora Dell’Utri era venuto via di… Berlusconi poiché questo Rapisarda era padrone di un sacco di soldi che gli aveva fatto avere Stefano Bontate… poi ammazzarono Bontate… che dall’America si sono fermati i flussi…». Due anni dopo, nell’estate 1996, arrivato ormai alla soglia dei 77 anni, Bebè confermerà davanti ai magistrati di Palermo il contenuto di quella intercettazione: «Un socio di Rapisarda, Giovanni Cangemi, mi disse che Stefano Bontate aveva dato soldi a Rapisarda fino a quando fu ucciso e cessò di arrivare denaro dagli Stati Uniti».

I fratelli Dell’Utri negli uffici di via Chiaravalle non c’erano insomma finiti per caso. Avevano seguito il flusso di quei capitali che Marcello – secondo i pentiti – già amministrava alla corte di Berlusconi. Marcello Dell’Utri aveva conosciuto Rapisarda nel 1975, quando Filippo Alberto, accompagnato dalla signora Angela Delitala, si era presentato in Foro Bonaparte, nella sede della berlusconiana Edilnord, per proporre una speculazione immobiliare in Sardegna. Per circa un anno e mezzo i loro rapporti erano stati di semplice conoscenza e inframmezzati da qualche passeggiata a cavallo sui terreni di Peschiera Borromeo di proprietà della Facchin & Gianni. «Rapisarda era un personaggio affascinante», dichiarerà Dell’Utri ai magistrati palermitani nel 1996, aggiungendo però che fin dal primo momento gli sembrò un tipo «inaffidabile». Ma nonostante questa presunta sensazione, Marcello e suo fratello Alberto fanno di tutto per lavorare insieme al finanziere siciliano.

Si presenta per primo Alberto, nel 1976: secondo Rapisarda, arriva in via Chiaravalle «assieme al suo amico Marcello Caronna per proporre la creazione di una società di condizionamento aria». A raccomandarli «era stato Gaetano Cinà di Palermo, che io conoscevo da tanti anni». Rapisarda sostiene di avere fatto orecchie da mercante, di aver tergiversato. Fatto sta che nei primi mesi del 1977 anche Marcello Dell’Utri sembra ormai di casa negli uffici della Inim. «Ho finito per assumerlo», spiegherà Rapisarda, «perché era difficilissimo dire di no a Cinà… Lui infatti non rappresentava soltanto se stesso, ma il gruppo in odore di mafia Bontate-Teresi-Filippo Marchese». Marcello diventa così amministratore delegato della Bresciano, un’azienda di costruzioni stradali rilevata dalla Inim nel giugno 1977. Alberto finisce alla testa della Venchi Unica 2000, la società finanziaria creata per controllare il capitale della quasi omonima industria dolciaria torinese. Interrogato più volte sugli anni trascorsi con Rapisarda, Marcello Dell’Utri avrà sempre cura di tenere fuori Silvio Berlusconi da questa storia nera popolata di mafiosi, trafficanti di droga e riciclatori di denaro sporco. E lo stesso Rapisarda negherà ostinatamente di avere mai conosciuto il costruttore di Milano.

Ma le carte processuali dimostrano come Marcello Dell’Utri abbia giocato per mesi su due fronti, quello Fininvest e quello Inim, con la piena consapevolezza – se non con l’avallo – di Berlusconi. Il 5 maggio 1987 è proprio Dell’Utri ad ammetterlo nel corso di un interrogatorio davanti a Giorgio Della Lucia, il giudice istruttore milanese titolare dell’inchiesta sul crac Bresciano: «Nel 1977 ebbi nuovamente un contatto con Rapisarda che aveva ormai assunto il concordato Facchin & Gianni… Rapisarda mi parlò delle sue proprietà in quel di Peschiera Borromeo, mi portò a visitarle e poi mi propose di collaborare con lui nella Bresciano… Man mano che mi faceva le sue proposte io ne parlavo con il dottor Berlusconi col quale ero quotidianamente in contatto. Rapisarda mi aveva anche proposto uno stipendio doppio di quello che mi dava Berlusconi. Berlusconi, persona molto esperta, era perplesso [ma alla fine] mi suggerì lui stesso di provare ad accettare, promettendomi che, se la cosa non fosse andata bene, mi avrebbe ripreso con sé. Cosa che poi è avvenuta».

Ascoltato come testimone da Della Lucia, Berlusconi conferma le parole di Dell’Utri. Al magistrato spiega anzi che Marcello, indicato dai giornali già negli anni Settanta come il suo «braccio destro», era invece solo il suo «segretario personale»; per questo vederlo passare, nel 1977, a un gruppo direttamente concorrente, non lo aveva contrariato troppo. E nemmeno si era preoccupato sapendo che Dell’Utri doveva seguire un affare – la lottizzazione dei terreni di Peschiera Borromeo – in grado di danneggiare le vendite degli appartamenti di Milano. Il tentativo di Silvio Berlusconi è quello di minimizzare il ruolo di Dell’Utri dipingendolo come suo semplice “impiegato’’ scarsamente stipendiato, e di apparire lontano da lui nel periodo in cui Dell’Utri è organico al gruppo para-mafioso di Rapisarda.

In realtà, il duo Berlusconi-Dell’Utri è interessatissimo a quel milione di metri quadri di terreni ex Facchin & Gianni ai confini di Segrate. Anzi, secondo Rapisarda, Berlusconi si era già fatto avanti ancor prima di lui per rilevare la Facchin & Gianni: ma non era riuscito a concludere l’affare perché offriva solo «6 o 7 miliardi con un acconto di 300 milioni, in quanto non aveva mezzi», a fronte dei 12 miliardi richiesti. Alla grande lottizzazione mancata non si interessa solo Dell’Utri. Anche altri uomini dell’Edilnord sono coinvolti nei primi progetti per edificare una nuova città satellite. «Rapisarda», ricorda Elida Bagnasco, vecchia proprietaria della Bresciano, «voleva convertire l’attività della mia impresa fino allora specializzata in appalti stradali nella costruzione e ristrutturazione edilizia di carattere civile. Voleva costruire una città satellite sui terreni di Peschiera, e per questo aveva interpellato un architetto di Cuneo, aveva fatto assumere dalla Bresciano Sas dei topografi, e tramite Marcello Dell’Utri aveva incaricato l’ufficio progettazione del gruppo Berlusconi per studiare un centro residenziale. Eravamo sul finire del 1977, ricordo che Dell’Utri aveva fatto venire negli uffici di via Chiaravalle dei tecnici della Edilnord. Non mi ricordo come si chiamassero, ma rammento che erano due giovani arrivati in via Chiaravalle “per fare un piacere a Dell’Utri’’. In quel periodo infatti Dell’Utri lavorava ancora da Berlusconi anche se veniva in via Chiaravalle, negli uffici di Rapisarda, e lo frequentava abitualmente».

Dell’Utri, in pratica, tiene i piedi in due scarpe. E lo farà a lungo. Nella primavera del 1978, dopo avere assunto nel precedente gennaio la carica di amministratore delegato della Bresciano, è ancora amministratore unico della Immobiliare Romano Paltano, società del gruppo Berlusconi (mentre nell’autunno dell’anno prima ha lasciato l’analoga carica nell’Immobiliare San Martino). Da questo punto di vista, il “cambio di casacca” sembra essere solo di facciata. Nel 1987, Berlusconi si affanna però ad assicurare: «Durante la fuoruscita di Dell’Utri dal mio gruppo, i nostri contatti non furono continuativi, posso immaginare per una specie di pudore derivante dal fatto che io lo avevo sconsigliato di intraprendere quella attività. Per questo Dell’Utri non mi tenne al corrente delle cose che riguardavano il suo lavoro con Rapisarda».

Ma non è tutto. Dopo i primi mesi, i rapporti tra Rapisarda e Dell’Utri si raffreddano. I conti della Bresciano non tornano. Quelli della Venchi Unica, dove lavora suo fratello, nemmeno. E quando nell’aprile 1979 la Procura di Torino ordina l’arresto di Alamia, Rapisarda e Alberto Dell’Utri, tra Marcello e Filippo Alberto volano parole grosse: la rottura sembra ormai inevitabile. Scoppia anche una guerra a colpi di carte bollate in tribunale. Dell’Utri ha come difensore uno dei legali di Berlusconi, l’avvocato Vittorio Dotti. È Dotti a seguire le prime fasi del braccio di ferro con Rapisarda, ed è sempre lui – secondo quanto ha raccontato uno dei sindaci della Bresciano, Renato Florio – ad assistere Dell’Utri quando questi decide di subappaltare alcuni cantieri per recuperare liquidità. E a dimostrare il costante e continuativo interesse di Berlusconi per le attività del duo Dell’Utri-Rapisarda c’è anche un documento non contestabile: una relazione interna della Cassa di Risparmio di Asti (l’istituto di credito maggiormente e-sposto nei confronti della Bresciano) che attesta l’esistenza, già nell’ottobre 1978, di trattative per cedere i terreni di Peschiera proprio a Berlusconi.

Rapisarda, infatti, per ottenere aperture di credito dalla banca piemontese aveva dato quelle aree in garanzia, e in questo modo aveva potuto acquistare la Bresciano. Nel 1977 i vertici della Cassa di Asti avevano benedetto l’intera operazione: il finanziere siciliano era parso loro la persona giusta per rimettere in piedi l’azienda e scongiurare il pericolo di un fallimento. Del resto, un’eventuale bancarotta sarebbe stata un disastro anche per gli uomini di Asti: in caso d’insolvenza, la prima danneggiata sarebbe stata proprio la Cassa che per una decina di anni aveva elargito alla Bresciano fidi a piene mani. Ma scegliere Rapisarda come acquirente era stato un gravissimo errore. Filippo Alberto non solo non aveva ripianato il buco, ma aveva finito per allargarlo. Per evitare il peggio e neutralizzare i controlli della Banca d’Italia, la Cassa di Risparmio voleva recuperare un po’ di liquidità cedendo i preziosi terreni. E sul finire del ’78, le carte dicono che quella di Berlusconi veniva ritenuta l’unica «proposta seria». Per Rapisarda la rottura con i fratelli Dell’Utri – suoi alleati nella guerra contro i cianciminiani – è uno smacco.

Quando li aveva accolti all’Inim, Filippo Alberto contava su di loro per risolvere i molti problemi che già nel 1977 si profilavano all’orizzonte. Per questo non appena nascono i primi contrasti con Alamia, il finanziere siciliano sembra convinto che Marcello e Alberto non lo possano abbandonare. Secondo Morgana, Rapisarda pensa che la coppia di berlusconiani gli possa «garantire appoggi importanti». Poi capisce di essere finito in guai seri. La situazione è tale che nemmeno i due gemelli sanno bene che pesci pigliare. La questione della Venchi Unica sta creando malumori ovunque. E tra chi è andato su tutte le furie c’è – secondo Rapisarda – anche un uomo che a Milano è abituato a farla da padrone: Ugo Martello, alias Tanino. Il 13 novembre 1987 Rapisarda racconta: «Negli uffici di via Chiaravalle veniva spesso un amico di Marcello Dell’Utri che poi seppi dai giornali essere il latitante Ugo Martello. Dell’Utri me lo presentò come un suo carissimo amico, specificando che si trattava di una persona di tutto rispetto… Marcello mi disse che una sua società era rimasta creditrice della Venchi Unica. Quel debito, aggiunse Dell’Utri, “fallimento o non fallimento, andava onorato se non si voleva incorrere in dispiaceri’’».

In quel periodo, insomma, l’intera baracca traballa paurosamente: di soldi freschi in cassa ne arrivano ben pochi. Per tutti, investire nell’impero Rapisarda sta diventando un rischio. E quando nel marzo 1979 a Torino i magistrati arrestano Alberto Dell’Utri per il crac della Venchi Unica, Rapisarda fugge all’estero. Marcello Dell’Utri rimane invece a Milano, a fronteggiare la tempesta. Da più di un anno si è stabilito in un appartamento di via Chiaravalle dove vivrà con la famiglia fino al 1983. Proprio allora l’interesse di Cosa nostra per le società dell’Inim sembra crescere: accanto ai vecchi protagonisti compaiono per la prima volta sulla scena gli uomini del clan Caruana-Cuntrera, trapiantato in Venezuela. A quell’epoca, l’80 per cento della droga prodotta in Colombia passava per Caracas e lì la gente di Siculiana ne distribuiva almeno i due terzi. Fatti i conti, gli agenti americani della Dea si sono convinti che solo nel 1983 questi mafiosi agrigentini hanno riciclato 3 miliardi di narcodollari: in parte soldi loro, e in parte dei cartelli colombiani.

Fuggito dall’Italia, Rapisarda trascorre sette anni di latitanza dorata. Il 16 febbraio 1979 vola a Parigi, poi si nasconde all’Hotel Palace di Sant Moritz, quindi va a Zurigo in attesa di salire su un aereo per Caracas. In Venezuela il finanziere siciliano si sente a suo agio. Nel Paese centroamericano conosce un po’ tutti. Giorgio Bressani, un architetto che lavorava per l’Inim e che per questo al-lora finì nel mirino della magistratura, ricorda: «Scappammo insieme. Arrivati a Caracas prendemmo un taxi fino a Maracay e andammo a trovare un toscano soprannominato “Pinetto’’, latitante per altri reati [Renzo Rogai, coinvolto anche in indagini sui sequestri di persona, ndr]. Quest’ultimo ci portò da un siciliano di Agrigento, Domenico Chiazzese. Rapisarda li conosceva già tutti e due. Infatti solo un anno prima, nell’autunno del 1978, quando ancora non era stato emesso alcun ordine di cattura nei suoi confronti, era già stato in Venezuela accompagnato da Alberto Dell’Utri».

Con Chiazzese, Rapisarda comincia a parlare di affari. Domenico è un buon punto di partenza: ha legami di sangue con i Mongiovì, a loro volta imparentati con i Cuntrera. Il periodo di ambientamento dura dieci giorni. Poi con Bressani, Filippo Alberto ritorna a Zurigo, dove passa due settimane all’Hotel Hilton. Quella in Europa è però solo una parentesi. La vera meta, nell’inverno 1979, sembra proprio essere Caracas. Lì lo attende il gotha di Cosa nostra. Al suo ritorno, nella hall dell’aeroporto due uomini vestiti di lino bianco lo aspettano silenziosi: sono i capibastone Gennaro Scaletta e Pippo Bono. Rapisarda è alla frenetica ricerca di nuovi soci con nuovi capitali. «I Cuntrera e i Mongiovì, presso i quali aveva trovato rifugio, avevano intenzione di finanziarlo per risanare la sua situazione economica», racconterà Morgana, precisando: «I Cuntrera gli corrisposero anche del denaro in cambio di una proprietà immobiliare di Milano, ma non entrarono mai in possesso di quegli immobili che vennero invece appresi [cioè rientrarono, ndr] dal fallimento Bresciano Inim».

Pippo Bono ha messo gli occhi su una parte dei terreni di Peschiera Borromeo e su un cantiere che la Bresciano aveva aperto in Siria per costruire un’autostrada. Per retrodatare le vendite e sottrarle così al fallimento, vengono falsificate le date dei contratti. Il giochetto però non va a buon fine, l’affare verrà di fatto annullato. «Gli acquirenti», ricorda Bressani, «“cercarono’’ poi Rapisarda in Venezuela per chiedergli spiegazioni convincenti». Contemporaneamente viene aperto un canale con un amico dei Bono: Antonio Virgilio. Il titolare dell’Hotel Plaza è interessato all’acquisto di alcuni palazzi, e per trattare l’affare manda in Venezuela il commercialista Fabio Sole, dal 1976 sindaco supplente della Banca Rasini, l’istituto di credito a lungo diretto da Luigi Berlusconi.

Rapisarda, del resto, con Virgilio ha già avuto modo di parlare. Lo aveva visto un paio di volte per discutere, con «la mediazione di Marcello Dell’Utri e del suo amico Marcello Caronna», la vendita di uno stabile in corso Sempione. «Virgilio era molto impaziente, loro sono sempre molto impazienti…» dichiara nel 1996 Filippo Alberto ai magistrati di Palermo, calcando il tono della voce sull’ultima frase. «Che cosa intende per loro?». «Mi riferisco agli ambienti mafiosi di cui Virgilio era espressione». C’è poi il fronte dei Cuntrera. Ma anche qui dopo qualche mese tutto va a finire a carte quarantotto. Racconta l’architetto Bressani: «Pasquale Cuntrera, che aveva conosciuto Rapisarda a un matrimonio dove erano presenti tutti i siciliani residenti in Venezuela, interruppe personalmente ogni rapporto con lui. E diede ordine che lo stesso facessero i suoi familiari e fiduciari. Ormai tutti avevano capito che era riuscito a mettere in piedi solo delle truffe. Pasquale oltretutto viveva abitualmente a Roma e lì aveva avuto informazioni molto precise su di lui».

SESSO E DENARO IN TRIBUNALE

In Italia, Rapisarda ha anche altri nemici. Uno di questi è il vicequestore Antonio Manganelli. Partendo da un’indagine su una banda di sequestratori che operava in Toscana, Manganelli ha scoperto che parte del denaro provento dei riscatti è stato utilizzato per investimenti in Venezuela. E si è anche accorto di come i banditi siano riusciti a darsi alla latitanza grazie a documenti di identità fornitigli proprio da Rapisarda e intestati a «Brucia Domenico [il titolare del ristorante “Il Viceré’’ frequentato anche da Dell’Utri, ndr], Moriconi Marcello, Massarotti e Dell’Utri Alberto». Manganelli comincia così un lungo e infruttuoso inseguimento sulle tracce del finanziere siciliano. Per cercare di acciuffarlo e stabilire se realmente – come sospetta la Criminalpol – sia stato uno dei grandi riciclatori delle cosche, Manganelli nel settembre 1982 arriva in un residence di avenue Foch 33 a Parigi, dove Rapisarda ha soggiornato a lungo sotto il falso nome di Alberto Dell’Utri.

«Interpellammo un inserviente del residence», racconta il superpoliziotto. «Mi ricordo che ci spiegò come, qualche mese prima, ritenendo che l’appartamento di Rapisarda fosse libero, fosse entrato senza bussare. In questo modo aveva visto Rapisarda armeggiare attorno a una valigia stracolma di banconote: chiusa frettolosamente all’apparire dell’inserviente». Nello stesso periodo Manganelli mette sotto controllo i telefoni delle varie società di Rapisarda, e scopre che in via Chiaravalle gli uomini d’onore legati ai Caruana-Cuntrera la fanno da padroni. Il clan di Siculiana che all’inizio della guerra di mafia stava dalla parte di Bontate è ormai passato dall’altra parte. Forse proprio grazie alla mediazione di Pippo Bono, si è alleato con i corleonesi e quindi può tranquillamente continuare a trafficare coca e riciclare soldi sporchi.

Manganelli intercetta gli apparecchi di Giovanni Cangemi e di Angelo Mongiovì: il primo è un socio di Rapisarda denunciato per rapina, truffa, estorsione e detenzione di armi; il secondo – un agrigentino il cui figlio, Nino, ha sposato una Caruana – è considerato dalla polizia «l’uomo di fiducia di Rapisarda in Lombardia e del gruppo mafioso Caruana-Cuntrera». Il finanziere di Sommatino con loro sembra andare perfettamente d’accordo, anche se il clima in via Chiaravalle si fa pesante giorno dopo giorno. Gli investigatori ascoltano l’avvocato Paola Mora, futura moglie di Filippo Alberto, mentre chiede una seconda guardia del corpo da aggiungere a quella che già le è stata assegnata. Domanda Cangemi: «Quel ragazzo là fuori come si comporta?». «È qui fuori, però a questo punto è meglio avere una persona armata…», risponde preoccupatissima l’avvocato Mora. Il 28 marzo 1985 Manganelli invia alle Procure della Repubblica di Milano e Firenze un voluminoso dossier intitolato “Indagini su esponenti del crimine organizzato operanti sul territorio nazionale e all’estero, facenti capo al gruppo mafioso Cuntrera-Caruana e a Rapisarda Filippo Alberto e collegati a Mongiovì Angelo e Cangemi Giovanni”.

Il superpoliziotto su Rapisarda non spende parole inutili: «È apparso come uno dei cardini del cennato sistema mafioso con sembianze di tipo imprenditoriale, il punto di riferimento per organizzazioni delinquenziali eterogenee (malavita sarda-mafia), abile conduttore di operazioni economico-finanziarie del tutto spregiudicate». Rapisarda è però deciso a difendersi con le unghie e con i denti. Davanti ai magistrati di Milano si dipinge come una vittima. Dice di essere stato truffato. Giura che se in via Chiaravalle c’è un colpevole questo è Marcello Dell’Utri: «Allora venni a sapere che nei miei appartamenti del palazzo di Piazza Concordia 1, all’epoca in cui Dell’Utri gestiva quanto rimaneva del gruppo Inim, erano andati ad abitare Bono Alfredo, Emanuele Bosco, Mongiovì Angelo e un ragioniere della famiglia mafiosa di Raffadali».

Rientrato in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta, il finanziere siciliano scriverà un memoriale nel quale sostiene di essere stato addirittura sequestrato in Venezuela da Pippo Bono, deciso a impadronirsi dei suoi beni. E alla fine troverà anche un magistrato disposto a dargli ragione su tutta la linea. Un giudice istruttore che oggi la Procura di Brescia accusa di corruzione: Giorgio Della Lucia. Nel giugno 1990, il giudice istruttore Della Lucia proscioglie Marcello e Alberto Dell’Utri, Vito Ciancimino, Francesco Paolo Alamia, Angelo Caristi e Rapisarda dall’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso. D’accordo con lui è anche il pubblico ministero Guido Viola il quale, tre anni dopo quella sentenza, lascerà la magistratura per diventare un avvocato del gruppo Berlusconi.

Gli elementi raccolti nel corso dell’indagine contro gli imputati sono obiettivamente scarsi. Ma decisiva per escludere ogni ipotesi di riciclaggio nelle società del gruppo Inim risulta una monumentale perizia contabile eseguita su ordine di Della Lucia dal commercialista Paolo Brecciaroli. Un lavoro che è costato alle esangui casse della giustizia più di 700 milioni, e che sei anni dopo la magistratura bresciana giudicherà completamente falso. Per Brecciaroli è stato chiesto il rinvio a giudizio per peculato e abuso d’ufficio: quella perizia, infatti, era stata redatta dallo stesso Rapisarda e dai suoi collaboratori nel corso di interminabili riunioni notturne. «Brecciaroli di suo ci aveva messo solo la firma» racconta un testimone.

Per i pm bresciani, tra il 1988 e il 1991 il giudice Della Lucia avrebbe invece intascato una tangente di circa un miliardo divisa in tre rate con uno scopo: far apparire Rapisarda e i suoi complici vittime di un raggiro da parte della Cassa di Risparmio di Asti, rendendo così vane le indagini sul crac Bresciano nelle quali era imputato anche Dell’Utri. Tra una tranche e l’altra del pagamento della presunta tangente al giudice milanese, arriva anche il proscioglimento di tutti gli imputati dalle ben più gravi accuse di associazione per delinquere di stampo mafioso. Le durissime parole con cui il giudice Della Lucia, nel testo della sua sentenza, irride ai risultati delle indagini di Manganelli assumono così un contorno sinistro.

Vale la pena di rileggerle: «Attraverso il setaccio dell’ampia documentazione bancaria sequestrata mediante sistematiche perizie contabili, basate anche sull’esame analitico, con ausilio della computerizzazione… del complesso dei movimenti finanziari di dare e avere delle società del gruppo Inim e delle persone del Rapisarda e dei componenti del suo staff, si era potuto pervenire con razionale certezza alla conclusione che nessun elemento e riscontro oggettivo corroborava le apodittiche affermazioni secondo cui il gruppo Inim ed il suo dominus Rapisarda potevano essere uno “dei cardini di un sistema mafioso con sembianze di tipo imprenditoriale e punto di riferimento per organizzazioni delinquenziali eterogenee’’».

Peccato però che Brecciaroli – nel 1994 fervido attivista del partito berlusconiano Forza Italia – venga accusato di essere un perito venduto. Che la famosa “analisi’’ della contabilità Inim fosse stata effettuata in realtà da Rapisarda, da sua moglie e dal suo ragioniere. E che dietro le sentenze di Della Lucia ci sia nascosta – secondo la magistratura bresciana – una storia nera fatta di tangenti, di altri giudici corrotti (come l’ex presidente vicario del Tribunale di Milano Diego Curtò), di esponenti di Forza Italia, di uomini Fininvest, e di tanti, tanti tradimenti. Nella richiesta di rinvio a giudizio per corruzione firmata dal magistrato bresciano Paolo Guidi, Filippo Alberto Rapisarda viene messo al centro di un boccaccesco “triangolo”.

Per il sostituto procuratore di Brescia non sarebbero stati solo i soldi a indurre Della Lucia a vendere le proprie decisioni. Secondo l’accusa, la tangente da un miliardo promessa e consegnata da Rapisarda sarebbe arrivata nelle tasche di Della Lucia «con la fattiva collaborazione di Paola Mora (avvocato e moglie del Rapisarda), la quale tra l’altro allacciava una relazione sentimentale con il dottor Della Lucia». Guidi è giunto a queste conclusioni dopo un’indagine durata tre anni. Tutto era partito nel 1993, nello studio di Giovanni Maria Dedola, uno dei legali della Cassa di Asti: dopo avere ottenuto a Milano l’assoluzione con formula piena dei propri clienti nel processo per il crac Bresciano, l’avvocato aveva voluto capire come mai in aula, durante il dibattimento, Brecciaroli non era stato in grado di illustrare i risultati della sua monumentale perizia.

Già allora Dedola sentiva odore di mazzette: sapeva infatti che in sede civile alcune decisioni favorevoli a Rapisarda erano state prese dal giudice Diego Curtò, poi condannato per corruzione (quasi mezzo miliardo di tangenti intascate per il caso Enimont). Ecco allora che nell’ottobre del 1993 nello studio di Dedola si radunano tre ex soci di Rapisarda: Ivette Grutt (negli anni Settanta compagna – sostiene lei – di Alberto Dell’Utri), l’architetto Giorgio Bressani, e Rocco Remo Morgana. Davanti a un registratore digitale, i tre raccontano le confidenze ricevute dal contabile di Rapisarda, Franco La Rosa, deceduto qualche mese prima. Dicono che per le mani del finanziere siciliano sono passate centinaia di milioni in contanti. Morgana parla di quattro buste gialle, piene di soldi, destinate «al Tribunale». La prima, contenente 300 milioni, Morgana l’ha vista con i suoi occhi: il 10 febbraio 1988 La Rosa gli ha spiegato che doveva finire a «una persona dell’ufficio del giudi-ce istruttore».

L’ultima, che risale ai primi mesi del 1991, secondo Morgana andava invece alla «presidenza del Tribunale civile»: lì – stando al racconto fattogli da La Rosa – qualcuno, forse un impiegato mai identificato, avrebbe dovuto riceverla con una parola d’ordine «Chi la manda ha qualche cosa da consegnarmi?»; La Rosa, dice Morgana, riteneva che quel denaro fosse destinato a Curtò. Pochi giorni dopo la riunione da Dedola, il nastro con la registrazione viene consegnato alla Guardia di finanza di Brescia 15 che, il 9 novembre 1993, redige un lungo verbale di trascrizione. Da quel momento l’inchiesta – allora affidata al sostituto procuratore Guglielmo Ascione – entra nel vivo. Su Curtò non vengono però trovati elementi decisivi. Una delle segretarie dell’avvocato Mora, Rosa Canevari, conferma che «esisteva una amicizia personale e diretta tra Rapisarda» e l’alto magistrato, e precisa: «Si frequentavano tra il ’90 e il ’91, l’epoca in cui era particolarmente importante ottenere dal Tribunale civile il sequestro delle azioni delle società Parco Est [proprietarie del milione e quattrocentomila metri quadrati di terreni a Peschiera Borromeo, ndr]. Esaurita la fase del sequestro non si parlò più di Curtò».

Un’ex collaboratrice di Brecciaroli (assunta con un collega da Rapisarda nel 1991, subito dopo aver terminato di trascrivere la perizia favorevole al finanziere siciliano) aggiunge: «Curtò l’ho incontrato nello studio di Brecciaroli dove veniva compilato il suo 740». I vari tasselli si inseriscono in un mosaico preciso: i rapporti tra il pluripregiudicato Rapisarda e Curtò esistevano, ma le tracce concrete dei presunti passaggi di denaro non vengono a galla. Per il giudice Della Lucia, invece, secondo l’accusa è tutta un’altra musica. In un primo momento Ascione decide di chiederne il rinvio a giudizio solo per il reato di abuso d’ufficio, ma nella seconda fase dell’inchiesta il Pm Guidi ordina indagini patrimoniali e dispone intercettazioni telefoniche. Il risultato è il capo d’imputazione per corruzione. Punto di partenza le dichiarazioni dei testimoni.

Racconta Donatella Pellegrini, ex impiegata di Rapisarda: «Ho visto mazzette di banconote da centomila lire contenute anche in semplici sacchetti di plastica che Rapisarda diceva, anche davanti a me, essere destinati ora alla Cassazione ora al Palazzo di Giustizia di Milano per ottenere quello che altrimenti non avrebbe potuto ottenere». E ancora: «È assolutamente certo che la cosiddetta perizia Brecciaroli fu materialmente fatta da Rapisarda, Mora e La Rosa». Interrogato dal magistrato, Rocco Remo Morgana ricorda molti particolari in più rispetto a quelli riferiti all’avvocato Dedola. «In una particolare occasione», sostiene, «Rapisarda si è vantato con l’architetto Bressani, Angelo Caristi e il notaio Sergio Romanelli, che l’atteggiamento a lui favorevole di Della Lucia gli era costato un miliardo». Poi specifica che la presunta tangente per la «presidenza del Tribunale civile» secondo il defunto La Rosa era «superiore ai duecento milioni». Bressani, Caristi e Romanelli confermano. Caristi parla anche di episodi di corruzione di semplici dipendenti del Tribunale di Milano: «Rapisarda era abituato a fare regali ai cancellieri: si andava da Rolex di acciaio a regali di maggior valore, a seconda dell’importanza del funzionario. Gli orologi li comprava in un negozio di via Montenapoleone». Ma secondo i testimoni c’è di più e di peggio: dopo l’inizio dell’inchiesta, il giudice Della Lucia e la signora Rapisarda, Paola Mora, sarebbero diventati amanti. Vero? Falso? E se è vero, il marito ne era al corrente? Nessuno è in grado di rispondere a queste domande. Bressani però spiega che quando la Mora «rimase incinta, proprio a Palazzo di Giustizia vennero diffusi dei volantini in cui si sosteneva che il nascituro era figlio di Della Lucia».

Le segretarie di via Chiaravalle, a questo proposito, ricordano le lunghe ore trascorse dalla moglie di Rapisarda a quattr’occhi con il magistrato e descrivono come irrespirabile l’atmosfera che aleggiava in quei giorni negli uffici. Rosa Canevari sostiene anche di essere stata più volte minacciata: «Rapisarda continuava a ripetermi di stare attenta perché avevo un figlio… Nel 1993 ho trovato la mia autovettura posteggiata sotto casa con la portiera aperta e l’interno completamente imbrattato di sangue». Dopo l’episodio, la segretaria ha presentato una denuncia contro ignoti, senza esito. Tutto questo avviene quando ormai Dell’Utri e Rapisarda si sono rappacificati. Dal 1988, infatti, la difesa del finanziere siciliano ha improvvisamente mutato strategia: colpevole del crac non è più il braccio destro di Berlusconi, ma la Cassa di Risparmio di Asti. Così i rapporti tra i due siciliani sono ridiventati più che buoni.

I testimoni riferiscono perfino che attraverso la segretaria di Dell’Utri, Ines Lattuada, Rapisarda avrebbe anche acquistato una Jaguar da regalare a Della Lucia. In realtà di quell’auto destinata al magistrato non è mai stata trovata traccia. È però vero – come racconta ancora Rosa Canevari – che «tutte le macchine comperate dal gruppo Rapisarda provenivano da Publitalia [società del gruppo Fininvest, ndr]». Dell’Utri insomma per l’amico Rapisarda era sempre a disposizione, tanto da darsi da fare anche per trovargli un pass per «le corsie preferenziali della città»: nel 1992, grazie all’intervento della signora Lattuada, viene recapitato in via Chiaravalle «un pass del corpo consolare di Malta», poi ritirato l’anno successivo. I magistrati scopriranno anche che fra il 1992 e il 1993, il finanziere in odore di mafia e il braccio destro di Silvio Berlusconi, in società, hanno fondato a Milano due nuove immobiliari (Ariete e Pegaso Srl).

Perfino il giudice istruttore Della Lucia si rivolge direttamente a Dell’Utri per ottenere dei favori. Una volta chiusa l’inchiesta con il proscioglimento del braccio destro di Berlusconi, il magistrato gli chiede, prima attraverso un avvocato e poi direttamente, di ingaggiare con un contratto di consulenza una sua amica: una critica d’arte di nome Tazartes. Della Lucia e la signora Tazartes vanno di persona negli uffici di Milano. «In effetti fu concluso un contratto di consulenza biennale 1992-93 tra Publitalia e la dottoressa, ma il contratto non è più stato rinnovato», ammette Dell’Utri. Quanto al giudice Diego Curtò, suo figlio Giandomenico da metà anni Ottanta lavora alle dipendenze del gruppo Berlusconi. E nel 1992, Mondadori (gruppo Fininvest) pubblica il romanzo “Didimo e il suo giudice”: autore, Curtò senior. Le “entrature’’ berlusconiane al Tribunale di Milano, del resto, sono già agli atti della Commissione parlamentare sulla Loggia P2 fin dal 1983.

Precisamente, nella testimonianza del faccendiere Alvaro Giardili relativa a un suo incontro col banchiere piduista Roberto Calvi: «Calvi mi disse di contattare Berlusconi, quello delle televisioni private, che era “molto ammanicato con i giudici di Milano’’», allo scopo di ottenere «uno spostamento della data di celebrazione del suo [di Calvi, ndr] processo». Il legame Dell’Utri-Rapisarda rimane invece un enigma. Un mistero che ruota attorno a un’unica domanda: perché Dell’Utri, dopo che nel 1987 Rapisarda lo aveva accusato di essere al servizio della mafia, non solo non lo ha denunciato per calunnia, ma ha addirittura riallacciato i rapporti con lui? Per avere una risposta occorre guardare al mondo delle antenne, agli anni in cui dalla sommità del grattacielo Pirelli trasmetteva i suoi primi, timidi segnali una televisione privata destinata a sfondare con il marchio del Biscione: Telemilano 58.

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