L’infanzia che l’artista vuole raccontare, quindi, ha i tratti della riscoperta di quel legame stretto che l’uomo ha con la natura nella sua forma più primigenia, vergine e rigogliosa, che si esprime in ogni componente dell’esposizione, dal carboncino con cui sono stati realizzati i disegni appesi alle pareti, alle numerose tipologie di creta utilizzate per scolpire le isole, cruda, terracotta, raqù. Nelle venti oasi – teste umane che tratteggiano i tre momenti del viaggio metaforico verso la riscoperta della fanciullezza, ricerca, approdo e poiseparazione, c’è un po’ di ogni individuo che sogna il paradiso.
Per il regista Hayao Miyazaki, il paradiso è accessibile solo tornando con la memoria all’infanzia e anche in Dark Island l’unico modo per raggiungere le isole sembra proprio il viale dei ricordi, dell’innocenza, della gioventù. Un cammino diverso da quello del prode Ulisse, ad esempio, di Abramo o del giovane Renzo in cerca di Lucia. Sebbene ciascuna isola, dominata dalla natura e dalla materia, trattata ad assumere sfumature del tutto originali, ne ricordi passaggi o momenti. Sembra contenere la storia umana e la mitologia, la cultura e la letteratura. Perché in realtà, l’interpretazione racchiusa nel percorso non è strettamente prestabilita, ma personale.
“La testa – spiega Lydster – è un rivelatore di immagini”. Spontanee anche se guidate da un filo rosso conduttore. Un lembo di terra che sembra galleggiare nello spazio espositivo autonomo eppure strettamente connesso con le isole circostanti, un arcipelago più che altro. Un richiamo all’impossibilità, per l’essere umano, di vivere isolato. Pur nell’indipendenza di ciascuna headscape, le altre presenti si amalgamano insieme a formare un’unica narrazione.
La prima sala, la ricerca, conduce a un tratto di mare quieto con diverse mete da raggiungere, tra cui spicca la Land of the Long White Cloud, traduzione della parola maori “Aotearoa”, la Nuova Zelanda, patria dell’artista. Al centro di questo pacifico spazio sorge la Dark Island, l’approdo circondato da un mare rosso e verdastro che attrae con le sue acque torbide e cupe.
La seconda sala, l’esplorazione, descrive ciò che sull’isola oscura vive. Vegetazione, e in lontananza un cupo felino che osserva il viandante, entrambi a rappresentare il rapporto pacifico che Lydster crea con la memoria, la vita ma anche la morte. Nera e vagamente minacciosa, nascosta tra fiori colorati e piante rigogliose.
E infine l’esposizione si sposta all’esterno, dove gli headscapes simboleggiano la partenza. Un momento malinconico, dove un volto femminile in lacrime guarda nostalgicamente la bellezza dei luoghi che sta lasciando, la freschezza dell’infanzia che via via si allontana.
“La natura – ricorda Lydster, autore anche di Rafts of memories a Villa Hercolani, dove esposte ci sono le sorelle maggiori delle headscapes, in marmo bianco di Verona e Carrara grandi anche due o tre metri – è una forza non solamente più grande di noi, ma anche una forza che cresce in noi”. E infatti i volti sul carretto in partenza contengono sui loro capi tracce delle isole che hanno percorso, squarci che porteranno con sé verso l’ignoto.