Testata: NZZ
Data di pubblicazione: 18/04/2012
Traduzione di Claudia e Cristina per italiadallestero.info
Articolo originale di Nikos Tzermias
Mamma mia! In quasi nessun altro paese come in Italia gli uomini chiamano tutti i giorni la mamma per raccontarle quello che capita loro di bello o di brutto. La mamma, i figli e la famiglia, per secoli sono stati il fondamento della società italiana, in passato dominata continuamente da potenze straniere. La famiglia è stata “una fortezza in un paese ostile”, ha scritto lo scrittore Luigi Barzini nel suo bestseller The Italians, riferendosi al fatto che le donne sono la spina dorsale della famiglia e senza di loro l’Italia crollerebbe come un castello di carte.Tuttavia nel corso dei secoli le donne italiane avrebbero dovuto anche imparare a trascurare i mariti, che senza le loro mogli non avrebbero concluso nulla.
Cambiamento molto difficile
Il libro di Barzini è stato pubblicato all’inizi degli anni ‘60, quando la famiglia italiana, di stampo cattolico, sembrava funzionare ancora bene e la Repubblica italiana viveva il miracolo economico. C’era un ottimismo generale diffuso. La gran parte delle casalinghe italiane ha avuto in media due o tre bambini. Il paese all’estero era per lo più noto per “La Dolce Vita”, anche se l’omonimo famoso film di Federico Fellini si poneva già in maniera critica nei confronti della società. L’Italia quindi ha subito un decisivo cambiamento sociale con un certo ritardo. Divorzio e aborto furono legalizzati nel 1974 e nel 1978, nonostante l’opposizione del Vaticano. Il numero dei matrimoni è diminuito e quello delle separazioni aumentato, anche se non in modo evidente come negli altri paesi industrializzati. Il tasso di natalità è iniziato a calare negli anni ’70 e anche in Italia i nuclei familiari sono andati via via diminuendo.
L’Italia quindi segue la tendenza generale? Niente affatto. Il tasso di fertilità in questo paese, anche se il più alto della maggior parte degli altri paesi industrializzati, è diminuito. Dal 1970 al 1995 è sceso da 2,43 figli per donna a 1,19. Da allora, il numero è lievemente salito stabilizzandosi a circa 1,4. Questo però principalmente grazie al tasso di natalità molto più alto tra gli immigrati. Ma anche così la percentuale di fertilità in Italia rimane una delle più basse nei paesi industrializzati ed è ancora nettamente inferiore rispetto al cosiddetto livello di ricambio di 2,1 figli per donna
Merita attenzione il forte crollo delle nascite, ma soprattutto perché solo il 48% delle donne italiane ha un lavoro rispetto ad un tasso medio del 59% in tutta l’area OCSE. La docente di economia Daniela Del Boca, di Torino, ricorda inoltre che negli ultimi 15 anni il tasso di occupazione per le donne nei paesi dell’OCSE è aumentato mentre in Italia è rimasto per lo più invariato.
Partorire solo dopo i trent’anni
Così, nel caso dell’Italia, la percentuale di occupazione femminile, di gran lunga molto minore che in altri paesi, è alla base della diminuzione del tasso dei fertilità. Ancor più che in alcuni paesi sviluppati come USA, Gran Bretagna, Francia, Svezia e altri paesi nordici, dove un tasso di fertilità in media molto più elevato, che raggiunge il livello di ricambio, è accompagnato da un tasso di occupazione femminile insolitamente elevato. Questi confronti dimostrano che le donne italiane sono soprattutto in difficoltà nel conciliare figli e carriera.
Certo alle giovani donne italiane piacerebbe avere almeno due bambini. Ma da giovani sono occupate nell’assicurarsi la migliore formazione possibile e subito dopo impegnate nel tentativo di affermarsi sul mercato del lavoro. Sorprendente oggi è la percentuale di donne giovani (25 – 34 anni) in possesso di un diploma di laurea (24%) decisamente superiore a quella dei coetanei maschi (15%). In questo contesto le italiane in genere pensano seriamente ai figli solo dopo i 30 anni, cosa che però ha ridotto considerevolmente la possibiità di prole. La Del Boca, che dirige anche il centro di studi per l’infanzia di Torino, ricorda che un quarto delle donne che lavora, rinuncia alla nascita del primo figlio per il lavoro ed è costretto molte volte dai datori di lavoro che al momento dell’assunzione si fanno firmare illegalmente una lettera di dimissioni in bianco. Tra le donne che perdono il lavoro a causa di una maternità solo i due quinti riescono ad essere nuovamente riassunte.
Come la carriera e la maternità siano in Italia difficilmente compatibili è dimostrato anche da una delle statistiche OCSE pubblicate lo scorso anno, secondo le quali un quarto delle italiane nate dopo il 1965 non ha figli, rispetto al 10% in Francia, 12% in Spagna, 15% in Svezia, il 16% negli Stati Uniti e il 20% in Germania.
Politica familiare arretrata
La docente di sociologia presso l’università di Torino, Chiara Saraceno, attribuisce anche la bassa fecondità e la mancanza di lavoro delle donne italiane ad un livello base di politica familiare che è ancora fermo agli anni ’50 e che ha portato ad un sovraccarico enorme che grava sulle famiglie di oggi. Sulla famiglia verrebbero scaricati tutti quei problemi che in molti altri paesi sono a carico dei servizi sociali pubblici.
La Saraceno e la Del Boca citano anche le ultime statistiche OCSE, stando alle quali il settore pubblico in Italia spende per famiglie con bambini solo l’1,4% del prodotto interno lordo, contro una media OCSE del 2,2%. Alle famiglie manca un sostanziale alleggerimento fiscale, anche se la bassa fertilità accelera l’invecchiamento della società e mette in pericolo le future pensioni. Entrambe contestano soprattutto la grande carenza di asili nido pubblici.
C’è posto solo per il 12% dei bambini sotto i tre anni, mentre il tasso in Francia e nei paesi nordici ha raggiunto il 30 – 40%. Allo stesso tempo nel paragone le aziende italiane raramente sono disponibili ad andare incontro alle esigenze delle madri lavoratrici. Circa la metà dei neonati di madri che lavorano sono affidati ai nonni in Italia, secondo le statistiche Istat. Ma questo ha lo svantaggio di una limitata mobilità economica.
Gli economisti Alberto Alesina (Harvard University) e Andrea Ichino (Università Commerciale Luigi Bocconi) criticano la Saraceno e la Del Boca che fanno troppo affidamento sullo stato e citano alcuni degli Stati Uniti dove la fertilità e l’occupazione femminile, nonostante gli scarsi servizi pubblici, sono elevate e le famiglie ricorrono in primo luogo all’assistenza privata grazie ad un reddito più alto. A prescindere completamente da questo, i due professori dubitano che ulteriori servizi pubblici possano risolvere il problema di base delle lavoratrici madri e che anche per i bambini possa essere la cosa migliore.
Alesina e Ichino individuano come ostacolo principale la separazione del lavoro tra i coniugi, assolutamente squilibrata in Italia, che, secondo numerosi studi, è l’unico paese occidentale industrializzato, dove le donne lavorano complessivamente, vale a dire in casa e fuori, molto più degli uomini, cioè in media 80 minuti in più al giorno. Le donne sono occupate nel lavoro domestico per 5 ore al giorno e quindi 3 ore in più rispetto ai loro mariti, dato che nella zona OCSE l’Italia è superata solo da Messico, Turchia e Portogallo.
Alesina e Ichino ritengono inoltre che dietro la richiesta di maggiori aiuti pubblici continui a nascondersi in fondo l’abitudine a pensare che siano innanzitutto le donne (in primo luogo) ad occuparsi dei bambini, degli anziani e della casa. Inoltre, in un paese economicamente sviluppato ci sono sempre meno lavori fuori casa, in cui gli uomini dal punto di vista tecnico o biologico avrebbero ancora un vantaggio rispetto alle donne. Al contrario gli uomini non potrebbero sostituire le donne nella gravidanza e nell’allattamento. Tuttavia le donne non potrebbero dedicare la stessa energia degli uomini per continuare la propria carriera professionale, perché sarebbero già gravate dalla maggior parte dei lavori di casa.
E’ indubbio che, nel corso degli ultimi decenni, sul tasso di natalità abbiano inciso negativamente i problemi economici generali dell’Italia. Queste difficoltà hanno anzitutto colpito la generazione dei giovani, svantaggiata nel rigido mercato del lavoro, in cui sono tutelati i lavoratori già in attività. Questo limita le possibilità di crearsi una propria famiglia in una Italia che, già da molti anni, ha uno dei tassi di occupazione minori nell’UE tra le giovani forze lavoro.
Solo il 35% dei giovani tra i 15 e i 29 anni hanno un impiego, rispetto ad un tasso del 50% nell’UE dei 15. Di particolare interesse è che 2,1 milioni di giovani italiani e italiane – ossia oltre il 20% – né studia, né lavora. La creazione di famiglie numerose è penalizzata anche certamente dal fatto che due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vivono ancora con i genitori, mentre la percentuale in Francia é del 30% o nel Nord Europa addirittura il 20%.
Introduzione dello “jus soli”?
Il basso tasso di natalità rischia di avere gravi conseguenze demografiche. Già dall’inizio dei primi anni ’90, l’Italia, che fino agli anni ’80 era stato un paese di emigrazione, presenta un deficit di nascite. L’Istat ha recentemente previsto che la popolazione rischia di ridursi nei prossimi cinquanta anni di 11.5 milioni di abitanti scendendo a 49 milioni, se la diminuzione non sarà compensata dalla maggiore immigrazione. Con una tale stabilizzazione della popolazione, la percentuale di stranieri senza naturalizzazione aumenterebbe del 7,5 al 23%.
Questa prospettiva ha di recente suscitato continue discussioni circa la possibilità di facilitare la naturalizzazione e l’applicazione anche del concetto di jus soli, già introdotto anche negli Stati Uniti, secondo il quale tutti i bambini nati in Italia da figli di immigrati acquistano la cittadinanza. Su questo si è pronunciato nel mese di novembre nientemeno che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Anche la coalizione di centro-sinistra ha accolto subito la proposta, mentre i rappresentanti della coalizione dell’ex Presidente del Consiglio Berlusconi, dimissionario a novembre, hanno risposto negativamente.