Era uscito dal carcere un paio di anni fa, dopo aver scontato 15 anni per l’omicidio di De Pedis: secondo l’accusa era stato lui a dargli appuntamento in via del Pellegrino, il 20 febbraio 1990, nel negozio di un gioielliere dove Renatino non aveva fatto a tempo a entrare: era stato freddato da due killer in moto e a a sparare era stato Marcello Colafigli, amico di Angelotti. Con l’uccisione del boss più potente di Roma, che tuttora giace nella chiesa di Sant’Apollinare, si è chiusa la fase gloriosa del Romanzo criminale di un pugno di killer divenuti troppo ricchi per non distruggersi a vicenda. A guidare la moto c’era Roberto D’Inzillo, minorenne, amico di Gennaro Mokbel, morto in Sud Africa all’indomani delle rivelazioni di Sabrina Minardi e subito cremato impedendo agli inquirenti ogni identificazione.
Un’altra storia, un’altra vita, niente a che vedere con il Far West di Spinaceto. Ieri mattina con Angelotti c’erano due rapinatori senza storia né gloria, compagni di strada di un uomo che fuori dal carcere non aveva trovato nessuno ad aspettarlo. A novembre Alemanno, dopo uno degli ultimi omicidi, aveva detto: “Dobbiamo evitare un nuovo fenomeno che ricordi la Banda della Magliana”. Un fantasma duro a scomparire. Tornano in mente le parole di Antonio Mancini, detto l’Accattone: “La Banda della Magliana esiste ancora, ha usato e continua ad usare i soldi di chi è morto o è finito in galera. Forse non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare spesso”. Anche l’Accattone può sbagliare.