Anche la scelta mirata del colore delle pareti potrà servire. Non più il grigiore di un penitenziario, ma i toni pastello che ricordano la campagna intorno. Niente sembra essere lasciato al caso. E’ un progetto pilota per tutto il territorio nazionale quello che sta nascendo a Lecce per recuperare il ruolo della genitorialità dei detenuti di Borgo San Nicola. “Genitori sempre“, si chiama così. E per il momento rappresenta un unicum, andando oltre a quanto già fatto nelle altre carceri italiane. Non più colloqui con i figli al di là dei vetri divisori e neppure più camerate promiscue, affollate. Gli incontri con i propri bambini avverranno in luoghi intimi, neutri, che per quanto possibile cercheranno di annullare l’idea di limitazione. Non più, dunque, le semplici ludoteche per ingannare le attese prima delle visite, ma visite che si fanno gioco, relazione, famiglia, con il supporto invisibile delle operatrici. Due sale sono già state attrezzate in entrambe le sezioni (maschile e femminile) della casa circondariale che sorge alla periferia del capoluogo salentino, un casermone di metà anni ’90 privo di un benché minimo spazio verde e incredibilmente sovraffollato, tanto da portare il Tribunale di Sorveglianza a condannare lo Stato, appena due mesi fa, per “pene contrarie al senso di umanità”.

Rimangono i numeri, difficili. 1298 carcerati a fronte di una capienza di 660 posti. E in cella spazi grandi quanto quelli di una bara. “Ma quelle restrizioni non possono e non devono pesare anche sul nucleo familiare, su cui invece, incolpevolmente, si riversano gli effetti più devastanti”. A parlare è Antonio Fullone, direttore dell’istituto. Il suo ragionamento è chiaro. La pena inflitta a un detenuto, anche se breve, rischia di trasformarsi, invece, in un “fine pena mai” soprattutto per i bambini più piccoli. I dati statistici sono eloquenti, a tratti drammatici. Il 30 per cento dei figli di carcerati ripete lo stesso percorso dei genitori. Perché la detenzione porta a perdere i punti di riferimento, perché poi si scatenano l’emarginazione e la discriminazione.

Sono verità che non si possono nascondere. “Per questo – continua Fullone – ricostruire i legami domestici o, meglio, non farli spezzare ha uno scopo duplice. Da un lato, per i piccoli il distacco improvviso può essere la causa di conseguenze comportamentali gravissime: iniziative come la nostra cercano di agevolare uno sviluppo che sia armonico. Dall’altro lato, per i reclusi la possibilità di relazionarsi con la prole in maniera più frequente, meno traumatica, diventa strumento indispensabile per il proprio percorso rieducativo e per il ritorno nella società. Non disconoscere i propri doveri di padre e di madre permette di rileggersi come persona e di darsi un’altra chance. Continuare a sentire la vicinanza del nucleo affettivo, solitamente, costituisce, poi, uno dei massimi deterrenti nel tornare a delinquere“.

E’ per questo che a Borgo San Nicola da tempo si organizza anche la “giornata dell’affettività”. La prossima sarà in occasione della festa della mamma, fra qualche giorno. Sono novanta, infatti, le donne recluse nel penitenziario salentino. E sono quasi tutte madri. Come più della metà degli uomini dietro le sbarre è padre. “La fascia d’età più presente tra i nostri carcerati va tra i 25 e i 35 anni – continua il direttore – e quasi tutti hanno messo su famiglia molto presto”.

Sarà lo staff specialistico del Centro Risorse della Famiglia della Provincia di Lecce a coordinare il progetto, in rete con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, con i servizi territoriali dei comuni, degli Ambiti sociali e della Asl. Certo, riconoscere la genitorialità come diritto del detenuto è un passo in avanti. Eppure anche su questo l’Italia è ancora indietro, troppo. E’ del 1997 la Raccomandazione che l’Unione Europea indirizzò agli Stati membri, specificando come favorire le relazioni familiari all’interno delle carceri. Sono passati quindici anni e ciò che si è seminato non è un disegno complessivo su base nazionale, ma sporadici interventi lasciati alla sensibilità e alla lungimiranza di volontari e di pochissime direzioni dei penitenziari. Il progetto “Bambini Senza Sbarre” dell’associazione Cuminetti, a San Vittore, ad esempio, o quelli di Telefono Azzurro con “Nido” e “Ludoteca”. Ma la diffusione negli istituti di pena è ancora non strutturata, non sistematica. E quello che si rischia è una tutela del diritto all’affettività – e all’agevolazione del recupero – solo a macchia di leopardo.

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