Il racconto di Alan Fiordelmondo, il reporter che incontrò l'ex direttore de l'Avanti quando era latitante nello Stato centro-americano, racconta la sua esperienza. Un testimone: "Il diplomatico totalmente sottomesso al faccendiere amico di B."
Immaginate di incontrare un noto latitante all’estero. Di sentirvi in pericolo – anche se siete stati voi a cercare lui – e di chiedere aiuto all’ambasciata italiana. Se immaginate che, varcando la porta, vi accolgano per tranquillizzarvi e chiedervi di aiutarli a trovare il latitante in questione, per poi consegnarlo alle autorità italiane, vuol dire che non siete a Panama e che non avete incontrato Valter Lavitola. Ecco nei fatti la versione di Alan Fiordelmondo, fotoreporter incaricato dall’agenzia di Fabrizio Corona di fotografare Lavitola a Panama. Era il 6 novembre 2011 quando, spaventato, Fioredelmondo chiede aiuto all’ambasciata italiana. Il fotoreporter aveva incontrato Lavitola, gli aveva detto d’aver scattato decine di foto che lo ritraevano, nei giorni precedenti, scatenando la sua ira. “Questo cretino – dice Lavitola ai pm napoletani che l’hanno interrogato pochi giorni fa – era andato all’ambasciata italiana, da Curcio, gli aveva detto che aveva lasciato precipitosamente l’albergo, aveva buttato i cellulari, e si era rifugiato in ambasciata, perché io lo potevo uccidere”. Al di là dello spavento, il fotografo non poteva conoscere i rapporti tra l’ambasciatore e Lavitola. Ecco cosa racconta, invece, qualcuno che Lavitola lo conosce bene: “L’ambasciatore Giancarlo Curcio – dichiara il testimone Mauro Velocci ai pm di Napoli – era totalmente sottomesso a Lavitola e in più di un’occasione, prima di intraprendere le proprie iniziative, chiede a Lavitola il suo consenso”.
IL RACCONTO DI FIORDELMONDO
“Rintraccio Lavitola grazie alla video intervista mandata in onda da Servizio Pubblico – dice il reporter – a 25 km da Panama, nel porto di Vacamonte. Mi dicono che Lavitola è in compagnia della famiglia, che ripartirà a breve, quindi mi piazzo all’aeroporto di Panama, dove lo aggancio, riuscendo a scattare le prime foto”. Arriva l’incontro. “Lo contatto al telefono, chiedendogli un’intervista e un servizio posato, lo convinco a incontrarmi senza offrirgli soldi, come invece sostiene lui: come potevo girare per Panama con 10mila dollari in contanti?”. Si vedono alle ore 17, cafè Segafredo, piazza Simon Bolivar: “Arrivo circa 15 minuti prima, restando seduto sul sedile posteriore dell’auto, e vedo un suv con quattro persone a bordo, che continua a percorrere lentamente la piazza, cercando qualcosa o qualcuno. Poi scendo e mi dirigo verso il bar, dopo poco Lavitola arriva a piedi, solo, siede anche lui e iniziamo la nostra conversazione, che dura circa 30 minuti. Nel frattempo un panamense, che dopo guiderà l’auto di Lavitola, ci raggiunge.
Lavitola mi dice che non è disposto a non fare servizi né interviste, poi mi propone una possibilità: devo riprenderlo mentre va sugli isolotti, a comprare le aragoste dai pescatori, da rivendere ai mercati locali, e mi chiede quanto posso pagarlo. Motiva la richiesta di denaro: è la necessità di far fronte alle esigenze che impone la latitanza. Poi mi propone di girare un video in cui racconta fatti per dimostrare la sua innocenza sul caso Tarantini. Gli dico che il servizio vale poco, che non posso pagarlo, e c’incamminiamo verso l’auto, con la promessa di risentirci la mattina seguente. Sale sul suv ma poi lo vedo venire verso di noi: apre la portiera e mi fa: “Non avrò il pelo sullo stomaco lungo fino a Miami, come dicono, ma un pezzo ce l’ho: tu qui se fai stronzate finisci male. Non sei in Italia, questa è come casa mia. Stai attento”. E ho avuto la netta sensazione che ero nei guai. Lavitola dice che vuole venire in hotel con me, per vedere le foto, gli rispondo di no, ribatte che vuol vedere la mia macchina fotografica, scatto in auto chiedendo all’autista di andare veloce verso l’hotel. Quando arrivo faccio in fretta il bagaglio, cancello i file foto dal computer e dalle macchine fotografiche e in un attimo faccio check out”.
Lavitola teme di essere stato fotografato in situazioni compromettenti e vuole evitare danni. “Chiamo il numero di emergenza dell’ambasciata, risponde un funzionario e dice che l’ambasciata è chiusa. A quel punto dico di essere un fotoreporter imbattutosi in Lavitola”. Cioè un latitante. Cosa risponde l’ambasciata? “Appena riagganciato conferirò immediatamente con l’ambasciatore: la ringraziamo, perché grazie alla sua testimonianza, oggi abbiamo la certezza che Lavitola si trova a Panama. Ne avevamo il sospetto, ma non eravamo certi”. Ma come: l’ambasciatore Curcio, così amico di Lavitola, stando alle parole di Velocci, non sapeva che ‘Valterino‘ era a Panama?
Il fotoreporter capisce che la faccenda sta peggiorando: “Al sentire queste frasi – continua – ho salutato velocemente, ho staccato il telefono, buttato il chip della scheda panamense”. Il giorno dopo l’Ansa batte un lancio: scomparso fotografo italiano a Panama. “Solo in quel momento decido di recarmi in ambasciata e incontro Curcio: la conversazione non è distesa, ho paura. Curcio vuol sapere se ho fotografie di Lavitola, rispondo di no. “Non possiamo montare un caso mediatico la dove non c’è – mi dice Curcio – perché si rischia che sia strumentalizzato2. Sostengono che il mio racconto ha parecchie lacune. Mi suggeriscono di denunciare le minacce alla polizia panamense. Gli rispondo che m’interessa soltanto tornare a casa. L’ambasciata mi fornisce un’auto di “fiducia”: un taxi. Ricordo ancora il saluto ironico del funzionario dell’ambasciata: “Speriamo non le accada nulla da qui all’aeroporto”.
Arrivato all’aeroporto di Panama, mentre scarico i bagagli, si avvicina un poliziotto, chiede il passaporto, il biglietto e se avevo fotografie. Rispondo di no. Al controllo documenti, il mio passaporto, inspiegabilmente non va più bene, mi dicono che è irregolare, poi mi chiedono se ho foto con me, e quali foto. La mia risposta è sempre la stessa. Arrivo ad Amsterdam e due poliziotti in borghese controllano la mia attrezzatura e mi chiedono conto delle foto. Continuo a rispondere che non ne ho”.
da Il Fatto Quotidiano del 1 maggio 2012