In Italia la stampa è un po’ più libera grazie alle dimissioni di Silvio Berlusconi dal ruolo di premier. Il nostro Paese resta tuttavia “parzialmente libero”, un’eccezione in Europa occidentale. È quanto si legge nel rapporto annuale relativo alla libertà di stampa pubblicato da Freedom House, organizzazione indipendente statunitense che si occupa di monitorare il grado di libertà civili e politiche nel mondo.
Con le dimissioni del Cavaliere a novembre, scrivono i relatori, “è significativamente diminuita la concentrazione dei media nel Paese (…) Berlusconi è infatti uno dei principali proprietari di mezzi d’informazione e la sua posizione politica gli aveva anche garantito il controllo dei media di Stato, compresa la capacità di influenzare le nomine dei dirigenti e dei giornalisti chiave”.
L’Italia migliora di un punto, ma resta al livello di Hong Kong e Guyana nel mondo e al 24esimo posto su 25 stati in Europa occidentale, seguita soltanto dalla Turchia. La relazione, diffusa in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa che si celebra oggi, conferma la simile classifica pubblicata a gennaio da Reporter sans frontieres, che sottolineava il positivo cambiamento ma metteva tuttavia in guardia della mancanza della volontà politica di riformare il sistema.
Su scala globale cresce la preoccupazione per la situazione in paesi come Siria, Yemen, Somalia, Baharain. Dal primo gennaio del 2012, Rsf ha documentato l’uccisione di 21 giornalisti e 6 cittadini–giornalisti. Uno ogni cinque giorni. I reporter incarcerati sono 162, ma si va oltre i 280 se consideriamo anche i blogger o i cittadini che in qualche modo si occupano di diffondere notizie su internet. Solo il 14,5% della popolazione mondiale vive in paesi con un’informazione libera.
Segnali positivi sono arrivati nel 2011 dalle rivolte della Primavera araba, che hanno portato alla caduta di dittature e sistemi repressivi. Libia, Tunisia ed Egitto passano per Freedom House da “non liberi” a “parzialmente liberi”, sebbene la loro situazione sia estremamente precaria.
Un ruolo determinante lo hanno giocato i nuovi media, come Twitter e Facebook, e il giornalismo partecipativo dei cittadini impegnati a denunciare abusi e documentare le rivolte.
I tre paesi scandinavi guidano come ogni anno la classifica; il “peggio del peggio” si ha in Bielorussia, Cuba, Guinea equatoriale, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Turkmenistan e Uzbekistan. Gli Stati Uniti restano tra le prime posizioni ma perdono punti a causa soprattutto degli ostacoli, e in alcuni casi la detenzione, subiti dai giornalisti che hanno provato a coprire i movimenti di Occupy Wall Street. “Diverse democrazie – si legge ancora nel rapporto – hanno minato l’ambiente ideale per la libertà di stampa, come Cile e Ungheria, che passano da “liberi” a “parzialmente liberi”. La Cina resta “il paese con il più sofisticato sistema di repressione” in materia, intensificato con il sorgere dei nuovi sistemi di comunicazione, così come accaduto in Russia, Iran e Venezuela. Infine, il Messico, con dieci omicidi nel 2011, si conferma “uno dei posti più pericolosi al mondo per i giornalisti”.