Quando morì, a Milano, Indro Montanelli aveva 92 anni. Io che (abitandoci) mi trovavo a due passi dalla sua Fucecchio, ne avevo appena compiuti 11. Ricordo qualcuna delle arti con le quali il paese (sia quello con la minuscola che quello con la maiuscola) andava metabolizzando la notizia: discorsi, circostanze, giudizi. Per quanto preziosi però, di tutto ciò, non ho altro che pochi bagliori.
Due vite che scorrono vie lontanissime l’una dall’altra.
Entrai per la prima volta nelle “stanze” circa tre anni, grazie alla Fondazione Montanelli-Bassi, e fuori da quelle finestre per un attimo immaginai che ci fossero veramente Milano e Piazza Navona, e che proprio da quei davanzali, anche da quei davanzali, un signore alto e distinto stesse ancora discutendo con il suo tempo. Nei miei occhi però quel signore aveva gli occhi burberi e sinceri di un nonno, un nonno che non chiede niente ma si aspetta almeno una parola. Ma quale?
Lui ai fatti della storia chiedeva i perché. Come i perché chiedeva a se stesso.
E’ odioso il velo di sacralità di cui alcuni ne nutrono l’immagine tanto quanto lo sono le demonizzazioni. A lui credo non sarebbero piaciute per niente: lo immagino divertirsi provocando le ire di questo o di quel politico, lo immagino ingegnarsi interi pomeriggi per scovare un congegno tra le battiture dei suoi articoli che legasse con puntigliosa precisione un evento ad un pensiero. Fare bene il proprio mestiere, specialmente il mestiere del giornalista, non vuol dire essere esenti da critiche: chi preferisce la penombra, ha questa priorità. Discutere, farsi un’idea, contestualizzare, argomentare con il coraggio anche di dire “io non la penso così”. E Montanelli così lo è stato fin da subito se è vero che riuscì ad inimicarsi il regime fascista criticando, da inviato in Spagna, il dittatore Franco: aveva meno di trent’anni. Rinunciare al Corriere della Sera perché in “disaccordo sulla linea politica”, ricominciare con “Il Giornale” e poi dover cedere anche questo “in mano proprio al potere”, un potere latente ma pronto ad esplodere che ci porta a grandi passi verso i nostri giorni fatti di un’aria insopportabile di miscuglio vomitevole. Montanelli trova la voglia e la forza di parlare anche di questo e del “vaccino che gli italiani dovranno bere tutto”, rischiando certo, come sempre, ma non per la presunzione di verità assoluta, quanto per il gusto di catalizzare i giorni attraverso i propri occhi ed il proprio cervello, nello sforzo di rendere conto al “solo padrone che un giornalista debba avere: il lettore”.
E ora che ripenso a quella parola, a quel qualcosa, mi fa piacere sapere che da qualche parte sia nato un quotidiano che ha per simbolo un’irriverente strillone! Una piccola cosa si dirà, ma è importante.
Montanelli, quello che tutti dicono essere, dopo il 2001, un Mondo cambiato, non lo ha visto; la storia, la sua storia, gli ha risparmiato un lavoro faticoso consapevole del fatto che lui, da solo, non vi si sarebbe sottratto.
Bisognerà che trovi il coraggio di tornarci nelle sue stanze, immaginerò come dicevo di trovarlo lì, affacciato, solo un attimo per dirgli: “Arrivederci, signor Indro”.
Perché un grazie gli sembrerebbe paraculo.
Mattia Mattonai