Pur non desiderando di essere un ribelle, si possono avere problemi a scuola, e questo fu il mio caso. Per salvare il salvabile, mia madre mi diede da leggere un volume della Storia d’Italia di Indro Montanelli, e le cose cambiarono. Quei libri scritti da un giornalista, che tutti ho divorato, parlavano una lingua molto diversa rispetto a quella dei pedestri manuali scolastici. Le cose cambiarono in tutte le materie fuorché in matematica, e più tardi, ascoltando un’intervista di Enzo Biagi ai compagni di scuola di Montanelli (“Terza B, facciamo l’appello”, 1971), seppi il perché. Anche il direttore non amava i logaritmi. La lettura di quei libri ebbero un grande influsso sulla mia formazione, e, devo dire, divenni un giovane piuttosto montanelliano, cioè per nulla in sintonia con i tempi in cui il caso mi aveva fatto nascere.

La Storia, le battute fulminee, Longanesi, Buzzati, Ricciardetto: questo sognavo leggendo Montanelli, e, anche se non dovrei dirlo, rimasi un po’ sorpreso quando il direttore, scacciato da “il Giornale”, decise di fondare “la Voce”, attaccando frontalmente il potere. Pensavo che, grazie alla sua fama, avrebbe preferito ritagliarsi un ruolo di memoria storica del giornalismo, e che, con quegli editoriali taglienti che solo lui sapeva scrivere, avrebbe scaricato il suo disprezzo su certi personaggi che di sé non lasceranno ricordi. Invece Montanelli diede battaglia ai nuovi padroni delle parole, e ai suoi cosiddetti colleghi, e creò l’unico quotidiano veramente liberale e moderato che l’Italia abbia conosciuto. Oggi tutti dicono che lo fece per difendere la libertà di stampa, e non pretendo di affermare il contrario. Ma probabilmente il ruolo del martire era meno nelle sue corde di quanto lo fosse l’onestà personale. E lo ha dimostrato, per affetto nei confronti della sua redazione, (che aveva subito il licenziamento collettivo da parte dell’editore de “il Giornale”), rischiando la propria reputazione.

Poi venne “la Stanza” al Corriere, e tornarono la Storia, le battute fulminee, Longanesi, Buzzati, Ricciardetto. Gli scrissi in diverse occasioni, e alcune volte ebbe la bontà di rispondermi. Ricordo in particolare quello che mi scrisse il nove Febbraio 1998, in risposta a certe mie un po’ ingenue lamentele sulla deprimente realtà quotidiana: “Ma ora, caro ragazzo, mettiti il cuore in pace (…). Tu mi dirai che a tutto c’è un limite. Meno che alla vergogna”.

 

Avv. Massimo Pesaresi

 

 

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