Sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. La Fondazione del defunto don Verzè chiede il sequestro dei beni degli indagati. La difesa di Daccò presenta eccezione di nullità della richiesta di rinvio a processo perché non c'è stato interrogatorio dell'imprenditore, ma per un formalismo il gup respinge
Sei su sette indagati per il crack finanziario del San Raffaele chiedono di essere giudicati con il rito abbreviato, che prevede lo sconto di un terzo della pena. I sette sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. L’istanza è stata presentata dai legali degli imprenditori Pierino e Luca Zammarchi, di Fernando Lora, il suo contabile Carlo Freschi al giudice per l’udienza preliminare di Milano Maria Cristina Mannocci. L’istanza è condizionata però ad una consulenza tecnica di parte sulla congruità dei prezzi contenuti nei contratti di appalto stipulati con la fondazione creata dal defunto don Luigi Verzè. Le difese di Pierangelo Daccò e Andrea Bezziccheri hanno chiesto invece l’abbreviato senza condizioni. La decisione sarà presa dal gup il prossimo 9 maggio.
L’ex direttore amministrativo del San Raffaele Mario Valsecchi, invece tramite il legale ha chiesto il patteggiamento a 2 anni e 10 mesi e 200 mila euro. La Procura di Milano ha dato parere favorevole. Sempre oggi la fondazione San Raffaele, nel corso della discussione ha chiesto il sequestro conservativo dei beni di tutti gli imputati, tra i quali l’imprenditore Pierangelo Daccò. Nel corso dell’udienza l’avvocato Gianpiero Biancolella, difensore di Daccò (arrestato anche nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Maugeri, ndr) ha presentato un’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio perché i pm hanno omesso di interrogare l’indagato nonostante questi ne avesse fatto richiesta dopo la chiusura delle indagini. Tecnicamente gli inquirenti, dopo il deposito atti, erano obbligati a sentirlo, ma non l’hanno fatto. La nullità appariva dunque fondata. Nella memoria depositata dai legali si diceva espressamente che il loro assistito “comunque sin d’ora” chiedeva di essere interrogato. Ma il giudice ha sanato questa situazione con un’interpretazione lessicale del passaggio che ha suscitato le proteste di molti legali. Secondo il giudice Maria Cristina Mannocci, i difensori dell’indagato avrebbero dovuto precisare nella loro richiesta la volontà “comunque e sin d’ora” di procedere con l’esame. L’assenza della “e”, quindi, avrebbe vanificato l’eccezione.