Come se si trattasse di un nume tutelare della patria ed in particolare della capitale, il sindaco Alemanno, ritenendo di interpretare un sentimento diffuso e/o di lucrare consensi commentò con parole solenni ed accorate le condizioni di salute del novantatreenne senatore a vita Giulio , quando fu ricoverato per un malore nel maggio dello scorso anno. “Siamo vicini a Giulio Andreotti e alla sua famiglia. E’ un grande patriarca della nostra città, e i cittadini romani, al di là delle posizioni politiche, provano per lui un grande affetto”.
Così parlò il primo cittadino della città eterna, anticipando per difetto il tenore dei commenti odierni, i cori quasi unanimi di plauso alla memoria ed il rammarico per la perdita dell’ insuperato statista, che si stanno levando, da quello che nella prima repubblica si definiva “l’arco costituzionale” e che ora è circoscritto all’esecutivo delle “larghe intese”. Non a caso a guidarlo è che solo nel 2005 con afflati di commozione ricordava così Giulio Andreotti “Un modello, un’icona mitica in casa di mio zio Gianni”.
E lo faceva in occasione della presentazione del libro agiografico sul sette volte presidente del consiglio scritto dal suo avvocato difensore Giulia Bongiorno, un “libro-dovere”, secondo il nostro attuale presidente del Consiglio, esemplare nel descrivere come un uomo giusto affronta “la giustizia ingiusta” e con “un esito per lui positivo”, dato che, va da sé, sarebbe stato sempre assolto.
Già la definizione di grande “patriarca” che secondo il Nuovo Zingarelli è il “capo di una grande famiglia, dotato di poteri assoluti sui propri discendenti, presso antiche popolazioni e popoli di natura” denotava la spiccata sensibilità democratica ed istituzionale del primo cittadino che disinvoltamente evocava il divo Giulio come il potentissimo capo tribù della capitale “esotica”, per usare una definizione Alleniana, di un paese ancestrale. Ma il sindaco di Roma non poteva prevedere che, solo un anno dopo, quel suo riconoscimento sarebbe risultato un po’ incolore ed inadeguato.
Quella del sette volte presidente del Consiglio che Alcide De Gasperi aveva avvedutamente stigmatizzato, agli albori della sua fulminante carriera politica, come “un giovane talmente capace da poter essere capace di tutto” è una storia politica italiana che spiega molto bene da dove è partita la nostra disgraziata Repubblica e come ha fatto ad arrivare dove è arrivata.
Non so se i cittadini romani provino per lui il “grande affetto” enfatizzato dai media e non saprei spiegarmi perché; se non forse per il fin troppo magnificato spirito caustico ed irridente, riservato sempre a chi non lo meritava e quasi mai ai potenti “visti da vicino”, che purtroppo avvalora le immagini un po’ logore e folkloristiche della Roma cinica ed amorale.
Affetto, of course, a prescindere “dalle posizioni politiche”, come se davanti ad un personaggio dallo spessore opaco ed inquietante di Giulio Andreotti fossimo chiamati ad interrogarci se sia stato un democristiano più di centro, di destra o di sinistra.
Giulio Andreotti è stato dietro gli snodi più oscuri e tragici della storia repubblicana; è stato “assolto” dall’accusa infamante per chiunque, ed orrorosa per un sette volte presidente del consiglio, di concorso in associazione mafiosa con quella che nel vecchio codice di procedura penale era la formula dubitativa ed è stato graziato fino al 1980 per intervenuta prescrizione.
E’ stato assolto in Cassazione per l’omicidio Pecorelli dopo essere stato condannato in appello a Perugia e senza mai aver chiarito i rapporti che lo avevano legato alla vittima, assassinata alla vigilia della annunciata pubblicazione dell’inchiesta intitolata “Gli assegni del presidente” sui fondi alla Sir di Rovelli.
Ma, al di là del curriculum giudiziario, basterebbe a stigmatizzare perfettamente la statura umana, politica ed istituzionale del “grande patriarca”, nonché “mitica icona”, la sua “battuta” del settembre 2010 a proposito della fine di Giorgio Ambrosoli: l’eroe borghese che, nell’ostracismo delle istituzioni rappresentate al massimo livello dal divo Giulio, affaccendato a coprire con tutti i mezzi Michele Sindona in patria e negli Usa, ha difeso la legalità fino al consapevole sacrificio della vita. Giorgio Ambrosoli “era uno che se l’era andata a cercare”, secondo l’ex giovanotto capace di tutto, divenuto felicemente “nonuagenario” e consegnato a tempo indeterminato, con plauso bipartisan, alle istituzioni repubblicane come senatore a vita.
Se visitate l’aula di Palazzo Madama, la guida si premura con molta enfasi di segnalarvi lo scranno in prima fila del senatore a vita la cui cronaca giudiziaria ha fatto il giro del mondo.
Ora non è più tempo per augurarsi che il ” pio grande patriarca”, assiduo fedele della chiesa di San Lorenzo in Lucina, finisca per raccontare, magari in extremis, almeno un decimo di quella storia sommersa che giornalisti capaci, registi audaci, pentiti con la determinazione di Tommaso Buscetta e magistrati senza paura hanno tentato di far emergere in un paese che non cambia mai.
Un paese che ai massimi livelli istituzionali sembra più orientato ad ispirarsi al Divo Giulio piuttosto che all'”eroe borghese”.