Si scrive Peppino Impastato ma si legge Mauro Rostagno. Ma la cosa funziona anche al contrario. Peppino ucciso a Cinisi 34 anni addietro, 9 maggio 1978, Mauro ammazzato a Lenzi (Valderice) dieci anni dopo, il 26 settembre del 1988. Peppino quella sera di 34 anni fa venne seguito da un’auto con sopra i suoi assassini appena uscito dalla sede di Radio Aut; Mauro stessa cosa, venne pedinato dai suoi carnefici appena messo il naso fuori dalla sede di Rtc, tv privata di Trapani.
Non è la morte crudele che ha reso sovrapponibili le loro storie, per Impastato e Rostagno ci sono stati assassini diversi, ma il comune denominatore è lo stesso, la mafia e la politica che non gradivano (non gradiscono) intromissioni, soprattutto quando a farle ci sono giornalisti che oggi si potrebbero vedere appellati come “professionisti dell’antimafia” – ma non in senso elogiativo – da parte di coloro i quali per non parlare della mafia attaccano chi la denuncia.
Proviamo a ricostruire quegli anni di Cinisi con Giovanni Impastato, il fratello di Peppino, costretto da lui a contare quei “cento passi” tra loro casa e quella di Tano Badalamenti. Scena resa bene nel film dedicato al fratello interpretato dall’attore Lo Cascio, che si vede seduto davanti al microfono della radio a irridere il boss del paese, chiamandolo don Tano seduto. Si fa subito serio davanti alla scena in cui quel don Tano affronta in malo modo, a causa di Peppino, suo padre (impersonato da Luigi Burruano), mafioso anche lui.
“Rispetto a quello che si vede nel film – dice Giovanni Impastato – la mia famiglia è andata oltre. Quando viene ucciso Peppino, al cugino italo americano che rivendica alla famiglia mafiosa l’appartenenza di Peppino, mia madre risponde di no, dice che non è vero, che Peppino non è mai stato uno di loro. C’è stata la rottura ma c’era già stata prima quando la mafia aveva ucciso mio padre che era andato a chiedere protezione per suo figlio presso le famiglie americane, ma don Tano Badalamenti, e questa scena nel film si vede, rifiutò quella cravatta che i mafiosi Usa gli avevano mandato atrraverso mio padre in regalo; non era un vero regalo, volevano mandare a dire che se avesse toccato Peppino il nodo di quella cravatta era destinato a stringersi attorno al suo collo, ma lui, potente, si poté permettere di prendere la cravatta e darla ad altri davanti a mio padre che capì bene quello che sarebbe successo”.
“E’ lì – continua il fratello del giornalista ucciso – che comincia la rottura e si completa ucciso Peppino, mia madre che rifiuta vendette e che pochi giorni dopo presenta alla Procura di Palermo un esposto con i nomi ed i cognomi, ed il movente, a proposito dell’uccisione di Peppino, ci sono voluti 20 anni perché si potesse svolgere quel processo la cui sostanza era scritta in quell’esposto, e questo dà la misura di quanto forte è stata la mafia in questa terra, tanto forte da rallentare il cammino della giustizia. Chi ha depistato le indagini sul delitto di mio fratello oggi è vivo ed ha fatto carriera. Chi ha creduto e si è battuto per la pista mafiosa è stato ucciso, non c’è più”.
Il processo per la morte di Rostagno. E Mauro Rostagno? Oggi, dopo tante piste, intrighi internazionali o vendette “interne” alla comunità, vicende anche poco onorevoli, c’è stata la svolta delle indagini, l’arma che l’uccise faceva parte della polveriera mafiosa a disposizione della cosca di Trapani, certamente ci sono le cartucce che tradiscono che a prepararle era stata la stessa mano che aveva preparato quelle sparate in altri delitti compiuti da Cosa Nostra trapanese. Oggi, dal 2 febbraio dell’anno scorso, è in corso un processo, oggi si svolge l’ennesima udienza, la prima nella quale esordiscono i testi delle difese degli imputati: alla sbarra ci sono Vincenzo Virga, capo mafia riconosciuto di Trapani, e il conclamato sicario Vito Mazzara ex campione di tiro a vola della nazionale azzurra.
Se fosse stato vivo, imputato sarebbe Francesco Messina Denaro, il “patriarca” della mafia belicina, che i pentiti dicono ordinò a Virga di uccidere Rostagno perchè Mauro “era diventato una camurria in tv, sempre a parlare di mafia mafia mafia…” hanno raccontato i pentiti. Don Ciccio è morto di crepacuore nel 1998 per l’arresto di Salvatore, il più grande dei suoi figli che faceva il preposto presso la Banca Sicula dei D’Alì.
L’altro figlio è Matteo, il “volgare assassino” che da solo può riempire di morti ammazzati un cimitero (lo ha scritto vantandosene in un pizzino) e che oggi con le stesse mani insaguinate gestisce imprese e holding.
Forse c’era anche lui il 26 settembre del 1988 a Lenzi, perchè con “Vituzzu” in altre occasioni spararono assieme, nella faida di Partanna per esempio. Nel 1988 l’allora capo della Mobile Rino Germanà (oggi questore a Piacenza e scampato ad un agguato di Matteo Messina Denaro nel 1992) aveva intrapreso con decisione la pista investigativa che a proposito del delitto Rostagno conduceva ai mafiosi, venne fermata quella indagine, per il delitto altri investigatori, carabinieri, erano convinti che le piste erano altre.
Funzionava il tam tam di don Marianino Agate che a Mazara aveva lanciato il suo passaparola, Rostagno ucciso “per questione di corna”, una voce arrivata ancora oggi dentro al processo nonostante gli svarioni con la quale questa voce viene sempre accompagnata. “Per Peppino – dice suo fratello Giovanni Impastato a proposito di similitudini col delitto Rostagno – saltò fuori un rapporto che parlava di suicidio, poi si disse che era un terrorista e che restò dilaniato dal tritolo che stava piazzando quella sera sulla strada ferrata per un attentato”; per Rostagno si sentì dire di strani affari, di dollari trovati nella sua borsa, prima di sentire pronunziare con convinzione la parola mafia sono trascorsi 20 anni.
Don Tano Badalamenti a Cinisi, Mariano Agate a Trapani; Impastato contro don Tano “seduto”. Mauro Rostagno non perdeva occasione per parlare di don Mariano Agate, l’imprenditore del cemento mazarese che mentre Rostagno lo accusava di malefatte, di traffico di droga per esempio, poteva permettersi di sedere alla tavola con il capo dei capi Totò Riina che a Mazara trascorreva le vacanze e aveva i suoi rifugi a pochi metri dal mare di Tonnarella. “Dite a chiddu vistutu di bianco che la finisca di dire minchiate”, così un giorno in tribunale un cameraman di Rtc si sentì dire da don Mariano Agate. Erano i giorni del processo in Corte di Assise per l’omicidio di Vito Lipari, ex sindaco di Castelvetrano. Agate era tra gli imputati, condannato in primo grado, venne assolto nei successivi gradi di giudizio.
Rostagno seguiva quel processo, anni dopo altre indagini fecero scoprire che le sue intuizioni erano giuste. Alla sbarra c’era la mafia potente della provincia di Trapani e lui aveva mille ragioni per bersagliarla. Era però quasi solo. Lui come Peppino Impastato circondato da pochi, non aveva un padre che però potesse essere avvicinato per farlo redarguire, c’erano alcuni amici che però potevano essere stati avvicinati e probabilmente lo furono come Cicci Cardella, il guru della comunità, appena morto di infarto in Nicaragua, e Puccio Bulgarella, l’editore di Rtc, anche lui passato a miglior vita. Il pentito di Palermo Angelo Siino dice che Bulgarella fu contattato un paio di volte per fare tenere a freno Rostagno, ma l’ex editore ha sempre negato che questo sia avvenuto.
“Mi sembra di rivivere la storia di Peppino – dice Giovanni Impastato – quel suo perenne scontarsi contro il malaffare, la mafia ma anche il modo pensare e di agire di tutti gli altri, quell’impegno di disobbedienza civile contro tutte le cose e le leggi che non hanno al centro la dignità dell’uomo. Tutti e due ci invitavano e ci invitano ancora oggi ad aprire bene gli occhi”.
Peppino Impastato venne ucciso quando era candidato alle elezioni per il Consiglio comunale di Cinisi, Mauro Rostagno pare pensasse di candidarsi al Consiglio comunale di Trapani (c’era già la lista l’ “Altra Trapani”), ma i killer fermarono l’uomo, il progetto e la lista, permettendo di tirare un respiro di sollievo a quella politica che di quei tempi organizzava il tavolino di spartizione degli appalti con mafia e imprenditori. La mafia che sparava cominciava a cambiare pelle e diventare imprenditrice. “La mafia è una montagna di merda” diceva Peppino Impastato da Radio Aut. Aggiungiamo adesso che è puzzolente sia che spari sia che faccia impresa.