René Magritte, Il Castello dei Pirenei 1959
René Magritte, Il Castello dei Pirenei 1959

  

 


 

 

 

 

 

 
Laputa – Castello nel cielo, Hayao Miyazaki, 1986

 

 

 

 

 

 

 

 


Hallelujah Mountains, Avatar, 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Ahmet Ogüt, Castello di Vooruit, 2012

Mi aggirai per un pezzo fra gli sogli; il cielo era perfettamente limpido e il sole così vivo, che fui costretto a voltar la faccia: quand’ecco, all’improvviso esso si oscurò in un modo ben diverso, mi parve da come avviene quando gli passa davanti una nuvola. Mi volsi e scorsi tra me e il sole un enorme corpo opaco, che procedeva verso l’isola. Sembrava volasse all’altezza di due miglia e tenne nascosto il sole per sei o sette minuti. L’aria però non diventò fredda, né il cielo più oscuro che se mi fossi trovato all’ombra di una montagna. Via via che si avvicina al punto in cui mi trovavo, si rivelava come una massa solida col fondo piano, liscio ed estremamente lucido per il riflesso del mare sottostante. Stavo sopra un’altura a circa duecento iarde dalla spiaggia e vidi che quella vasta mole scendeva giù quasi allo stesso mio livello e alla distanza di meno di un miglio inglese. Col cannocchiale le potei chiaramente vedere che parecchia gente ne saliva e scendeva dai fianchi inclinati, ma non riuscii a capire cosa stesse facendo.

Il naturale istinto di conservazione destò in me un’intima gioia e subito apersi l’animo alla speranza che questo avventuroso caso, in un modo o nell’altro, mi avrebbe offerto il mezzo di tirarmi fuori dal luogo desolato e dalla disperata situazione in cui mi trovavo. Al tempo stesso, il lettore non si può figurare il mio stupore nel veder viaggiare per aria un’isola abitata da uomini che, come sembrava, eran capaci di sollevarla, abbassarla, regolarne il corso a loro piacimento. Ma non essendo disposto in quel momento a filosofare su quel fenomeno, preferii stare a vedere la rotta che l’isola avrebbe preso, poiché per un pezzo rimase immobile. Subito dopo essa si avvicinò per cui potei vederne i fianchi cinti di parecchie serie di corridoi e scalinate, a certi dati intervalli, per poter discendere da un corridoio all’altro. Nella più bassa di queste gallerie, vidi alcuni uomini che pescavano con certe lunghe canne e altri che stavano a guardare. Agitai il mio berretto e il fazzoletto verso l’isola, dal momento che il mio cappello era da un bel po’ diventato straccio, e quando essa mi fu più vicina, chiamai e gridai a voce spiegata; poi, guardando attentamente, scorsi una folla addensarsi dal lato che era più a portata della mia vista. Poiché l’uno mi additava all’altro, capii che mi avevano individuato, sebbene non rispondessero alle mie grida di gioia. Quattro o cinque uomini si misero a salir le scale correndo in tutta fretta, finché non giunsero in cima all’isola e disparvero. Evidentemente erano stati mandati a chiedere ordini a qualche persona autorevole.

Intanto altra gente sopraggiungeva ed in meno di mezz’ora l’isola fu messa in moto e sollevata in modo che la galleria più bassa venne a trovarsi a cento iarde dall’altura in cui stavo e allo stesso mio livello.

Assunsi allora l’atteggiamento più supplichevole che potevo e parlai nel tono più umile, ma non ebbi alcuna risposta. Quelli più vicini che mi stavano di faccia sembravano, dalla foggia del vestire, persone ragguardevoli. Parlavano fra loro con serietà, volgendo spesso lo sguardo verso di me. Uno di essi, infine, mi rivolse la parola in un idioma chiaro, gentile, dolce, che suonava quasi come l’italiano. E in italiano, appunto risposi, sperando che almeno la cadenza sarebbe tornata gradita al suo orecchio. Nonostante io non capissi lui né lui me, riuscì facile a quella brava gente indovinare il mio pensiero, giacché ben vedevano la triste situazione in cui mi trovavo.

Mi fecero segno di scendere giù dalla roccia e di recarmi alla spiaggia, cosa che io naturalmente mi affrettai a fare. L’isola volante, allora, sollevatasi all’altezza necessaria, si librò in modo di avere il margine a perpendicolo sopra di me. Dalla più bassa delle sue gallerie venne mollata una catena, all’ultimo anello della quale era stato assicurato un sedile. Su questo mi accomodai tenendomi ben fermo e le carrucole mi tirarono su.

(J. Swift, I viaggi di Gulliver, traduzione di C. Formichi, p. 148-149, Mondadori.)

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