Il 10 maggio in Messico è la festa della mamma. Non come in Italia che cade la seconda domenica di maggio. Anzi, qui in Messico maggio lo chiamano il mese della madre, un po’ per marketing e molto perché qui la madre è molto importante, quasi come la Vergine di Guadalupe.

Il 10 maggio quindi è festa, i figli portano mazzi smisurati di rose alle mamme, scatole di cioccolatini, palloncini e peluche pacchiani rosa pastello, a forma di cuore.

Quest’anno però tante madri sono andate in strada, nel centro di Città del Messico, a protestare e a piangere, per la scomparsa dei loro figli. Queste madri non hanno nulla da festeggiare, perché in Messico, dal 2006 ad oggi sono 10mila (o di più, perché non ci sono cifre ufficiali) i desaparecidos. Gente comune, di tutti i tipi, prevalentemente figli, che da un giorno all’altro sono divenuti ombre.

“Noi non abbiamo proprio niente da festeggiare oggi” grida Yolanda, che ha perso il figlio due anni fa nello stato di Sinaloa insieme a centinaia di altre madri “Questa marcia è un grido di dolore. Vivi li hanno portati via e vivi li rivogliamo indietro!”

Magliette bianche e tante foto. Volti di persone, tanti giovani, portati in processione come statue di santi. Sono i volti delle vittime della guerra fallimentare che ha condotto il presidente messicano Felipe Calderón contro il narco dal 2006 a oggi, che ha prodotto più di 60mila morti ammazzati e più di 10mila desaparecidos.

Santiago Cabezut è un uomo alto, ben vestito e pettinato, sempre con una sigaretta in bocca. Lui è stato il presidente del gruppo di lavoro dell’Alto Commissariato dell’Onu sulle desapariciones forzadas (le sparizioni forzate) in Messico. Ha osservato questa atrocità da ogni lato e oggi è qui con queste madri che urlano, piangono, instancabili camminano e come dicono loro “rompono i coglioni al governo”, sempre instancabili. Santiago parla di una tragedia umanitaria.

La festa della mamma in Messico è vestita di bianco, ricorda i pañuelos delle madri di Plaza de Mayo argentine che dopo decenni sono ancora in attesa di risposte e non smettono di combattere.

Nemmeno qui hanno alcuna intenzione di smettere. “Alcune di noi hanno paura. Veniamo paralizzate dalla paura, è quello che vogliono.” A Rosario hanno portato via un figlio da tre anni, lei viene da Tijuana. Lo hanno fatto sparire dei membri della polizia dello stato di Coahuila insieme ad altri sei ragazzi. “Pensano di paralizzarci perché abbiamo altri figli, abbiamo le nostre famiglie. E tante di noi hanno paura e rinunciano a cercare i propri figli, a unirsi a qualche organizzazione. Però in tante sono venute oggi, perché hanno saputo della marcia alla televisione. Hanno vinto il terrore, hanno preso coraggio e sono qui con la foto del loro figlio. Non hanno capito questi politici schifosi che noi non smetteremo mai di cercarli. Finché avremo vita non smetteremo mai!”

Sotto la statua dell’Angel dell’Indipendenza si allestisce un sit in. Con un microfono vengono letti i nomi di centinaia di desaparecidos, perché non sono numeri ma persone. Nel caldo del maggio messicano la lista di nomi va avanti per ore.

E si continua a contare.

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