Riconquistare degli spazi urbani coltivando orti e spazi verdi, per combattere l’ingrigimento di metropoli di crescente bruttezza. Per riappropriarsi di scampoli di bellezza, anzitutto, nelle città del primo mondo, o per avere ortaggi e verdure fresche a tavola, là dove, in Kenya o nelle regioni più povere del Brasile, il cibo sano è un lusso. Queste sono le tracce seguite da Michele Mellara e Alessandro Rossi, registi del documentario God save the green. Progetto in divenire (siamo alla fase di montaggio), originale per contenuti e per modalità di finanziamento: così come il film celebra la lotta dal basso di chi vuole riconquistare un rapporto diretto con la terra e i suoi prodotti, allo stesso modo si presenta come progetto appartenente di diritto alla comunità internazionale degli ortocivisti, e ad essa si rivolge per essere supportato, anche finanziariamente. Sabato dalle 17 a tarda notte al Tpo di via Casarini a Bologna una lunga giornata dedicata al documentario: si parte dal tardo pomeriggio con laboratori di verde per bambini, una cena sociale, la proiezione di alcuni estratti dal documentario, un concerto di Massimo Zamboni e Angela Baraldi, rispettivamente compositore delle musiche e voce narrante del film.

Come nasce il progetto di God save the green?

“Il progetto è nato nel nel 2009, e da subito si è presentato come ambizioso, sia dal punto di vista produttivo che dal punto di vista della ricerca che ci sta dietro. Ci siamo documentati sull’argomento ma soprattutto abbiamo scelto di confrontarci con soggetti competenti in materia, a partire dalla bolognese Cefa, una Ong che dal 1972 si occupa di progetti di sviluppo agricolo nel mondo, e da Giorgio Gianquinto e Francesco Orsini, docenti della Facoltà di Agraria, esperti di orticultura urbana. Di queste preziose consulenze ci siamo avvalsi per costruire un grande affresco che raccontasse storie di persone in varie città del mondo, Italia, Germania, Kenia, Marocco e Brasile, luoghi in cui andare a ritrovare le esperienze più interessanti ed originali di orticultura urbana. Abbiamo attraversato due mondi: da un lato luoghi come Teresina in Brasile e le bidonvilles di Nairobi, luoghi nei quali tali forme di coltivazione rappresentano l’unico modo per accedere ad un cibo sano, dall’altro le esperienze di guerrilla gardening berlinese, che è operazione etica ed estetica, omaggio alla bellezza della natura, azione politica e culturale con un portato concreto sulle relazioni tra le persone in un contesto urbano, interventi che ravvivano lo sguardo sul paesaggio”.

Un viaggio in tre continenti, che ha avuto come base di partenza Bologna e realtà nate in questa città, e che compaiono nel vostro documentario. Quali sono state le esperienze che vi hanno più colpito?

“A Bologna abbiamo seguito le tracce di due esperienze nate all’interno della Facoltà di Agraria. Da un lato Eugea, società nata come spin-off aziendale e gestita da un docente di agraria, che produce e commercializza in tutta europa kit di semi per coltivazione di piante e fiori su balconi e terrazze. Dall’altro l’esperienza di Horticity, che si occupa di produzione di orti trasportabili da balcone utilizzando materiali di recupero: nel documentario raccontiamo la realizzazione di un orto idroponico (fuori suolo) sul tetto di un condominio popolare nella prima periferia di Bologna, una creazione davvero molto particolare. Anche se l’l’impatto più forte sia dal punto di vista visivo che umano è stato quello con la la bidonville di Nairobi, una delle tante che abbiamo percorso, all’interno della quale gli abitanti si sono inventati queste coltivazioni di verdure usando della terra non contaminata da liquami racchiusa dentro sacchi di juta. Fa un effetto impressionante vedere questa sorta di prato sospeso fatto di sacchi verdi in mezzo alle distese di lamiere arrugginite e fango”.

E’ singolare il modo in cui avete deciso di raccogliere fondi per terminare il film, con un appello al crowdsourcing lanciato alla società civile.

“Sì, i 160mila euro in cui abbiamo stimato il costo complessivo del documentario sono stati, ed è tuttora, raccolti in maniera piuttosto complicata. Abbiamo avuto i contributi del Cefa e di Horticity, della casa di produzione Ethnos di Bologna e ovviamente della nostra casa di produzione, la Mammut Film. Nel 2008 il progetto del film era stato presentato alle Giornate Europee dell’Audiovisivo, vincendo un premio in denaro. Sono arrivati i contributi della Regione e quelli della Film Commission di Bologna e Torino. Ma quello che ci sta a cuore, e non solo per la valenza economica ma soprattutto per la portata simbolica che ciò può avere, è la partecipazione di tutti coloro che siano sensibili al tema che il film affronta. Il documentario racconta storie di persone che cercano di cambiare in meglio la loro realtà, a partire da gesti piccoli e individuali, o di piccole comunità, ed è a queste persone che ci rivogliamo affinchè sentano questo film come il loro film”.

La sensazione è che si stia intraprendendo una direzione obbligata, che la necessità di un ritorno a forme di economia diverse non sia più procrastinabile…

“Crediamo ci siano due livelli di esistenza del fenomeno. Da un lato cresce l’attenzione, forse a tratti confuso con una moda, nei confronti dei prodotti a chilometro zero, che percepiamo come un significativo cambiamento di rotta, un segnale di una stanchezza nei confronti della produzione agricola industriale per cui ci si torna a fidare del contadino, aggirando la paradossale mediazione dell’industria a certificazione della genuinità dei prodotti agricoli. Ma crediamo che si stia diffondendo anche un bisogno primario, imprescindibile, di tornare alla terra, di sporcarsi le mani con la terra, perchè si è sclerotizzato il meccanismo urbano e le città diventano posti sempre meno accoglienti in cui vivere. C’è indubbiamente una trasformazione in corso che va seguita e incentivata. Ci auguriamo che anche il nostro film dia, in questo senso, un contributo”

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