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Popoli, parchi e safari umani

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Fino a che punto il viaggiatore può appellarsi a una candida ignoranza per giustificare la sua complicità?

Viaggiare è parte del processo di crescita culturale e umano. Il richiamo dell’ignoto è inevitabile ma l’irruzione prepotente in casa d’altri tramuta il piacere della conoscenza in una minaccia per i popoli che incontriamo. Le verdi profondità del bacino amazzonico, i ghiacci dell’Artico, gli altopiani del Papua Occidentale e le savane dell’Africa meridionale sono le terre ancestrali dei popoli tribali. La legge internazionale riconosce ai popoli indigeni il diritto alla proprietà della terra e delle sue risorse, ma raramente viene rispettato. Fino a che punto il viaggiatore può appellarsi a una candida ignoranza per giustificare la sua complicità?

Nella Baia del Bengala, la sopravvivenza degli Jarawa delle Isole Andamane è minacciata da una strada che attraversa illegalmente il cuore delle loro terre aprendo le porte a bracconieri, coloni e turisti. Gli Jarawa sono usciti dall’isolamento solo pochi anni fa, e restano estremamente vulnerabili allo sfruttamento e alle malattie introdotte dall’esterno, verso cui non hanno difese immunitarie. A decimarli potrebbe bastare un virus comune, così come è già accaduto nel passato a tanti altri popoli indigeni, in ogni continente. Ma ad aiutare i turisti ad avere un incontro ravvicinato con la “tribù primitiva” è proprio l’autorità incaricata di proteggerla. “Andare a vedere gli Jarawa costa fino a 450 euro, di cui 150/230 vanno alla polizia” ha spiegato un operatore turistico a un giornalista dell’Observer in incognito. E occorrono anche alcuni “regali, come frutta e biscotti”, necessari per attirare la tribù e convincerla a danzare…

I safari umani sono situazioni limite, ma quanti turisti sarebbero disposti a boicottare alcune tra le mete più frequentate del mondo, come i parchi del Kenia o del Botswana? Recentemente, una parte delle terre dei Samburu sono state vendute a due organizzazioni ambientaliste americane che hanno definito la “protezione” dell’area – ricca di zebre e rinoceronti neri molto rari – come il miglior modo per “stimolare il turismo”. Immediatamente dopo, la polizia ha sfrattato la tribù con metodi brutali, bruciando i villaggi, uccidendo i suoi animali e aggredendo uomini, donne e bambini. Oggi, circa 2.000 famiglie samburu vivono accampate ai margini del loro territorio, nel terrore costante della repressione della polizia, mentre altre 1.000 sono state reinsediate a forza altrove, senza risorse a sufficienza per il sostentamento.

Sorte analoga toccò tempo fa ai Masai estromessi dal Serengheti; ai Wanniyala-Aetto dello Sri Lanka, ai Pigmei dell’Africa centrale, a molte tribù dell’india. I “rifugiati della conservazione”, sfrattati dalle 100.000 aree protette esistenti oggi sul pianeta, sono 130 milioni, quasi tutti indigeni. Ma anche il razzismo gioca la sua parte. Ritrarre i popoli tribali come “primitivi” è non solo scientificamente sbagliato e anacronistico, ma anche pericoloso. I governi ne fanno un pretesto per legittimare l’assimilazione forzata nella società dominante e derubarli più facilmente di tutto ciò che hanno. Folclore ed esotismo sono ben accetti solo nella misura in cui possono essere valorizzati nei depliant di viaggio, o soddisfare turisti ingenui o senza scrupoli, disposti a togliere ai popoli tribali dignità e identità mercificando le loro culture, per poi sprezzarli quando il loro stile di vita perde la sua presunta “autenticità”.

di Francesca Casella, Survival International

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