Con un decreto legge, approvato lo scorso 11 maggio il Consiglio dei Ministri ha dettato le nuove regole – in vigore da subito e per i prossimi due anni – relative ai contributi all’editoria.

Lo stesso Consiglio dei Ministri ha, inoltre, approvato lo schema di un disegno di legge delega per il riordino strutturale della materia, il cui iter parlamentare  inizierà nelle prossime settimane per concludersi chissà quando e chissà come.

Meno soldi, più trasparenza, più controlli e un occhio di riguardo all’editoria digitale è la sintesi con la quale Palazzo Chigi ha presentato la propria iniziativa.

E’ una sintesi di comodo, che nasconde sotto lo scintillio di alcune novità positive, le tante ombre di un’iniziativa ispirata dalla solita logica clientelare che, da decenni lega il Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi ad un manipolo di editori che tiene saldamente in pugno l’informazione nel Paese.

Parliamo, per ora, del decreto legge, unico elemento certo della manovra di Palazzo Chigi sull’editoria, essendo chiaro a tutti che non è nelle possibilità di questo Governo fare progetti e promesse di medio e lungo periodo attraverso disegni di legge.

Innanzitutto – prima che il Governo [n.d.r. questo e i futuri] ne “usucapisca” definitivamente il potere – val la pena di ricordare che la nostra Costituzione prevede il decreto legge come strumento eccezionale, da utilizzarsi solo laddove ricorrano straordinari presupposti di necessità ed urgenza.

La richiesta di aiuto e sostegno economico di alcuni editori di giornali, per quanto comprensibile, non rientra nelle ragioni che avrebbero dovuto indurre il Governo a sottrarre – con l’alibi della “disciplina transitoria”, in attesa del varo di una regolamentazione di riordino strutturale – la materia ad un dibattito parlamentare ampio ed approfondito.

Sin qui nessuna sorpresa, purtroppo.

Che anche questo Governo – proprio come il precedente – fosse prono e supino dinanzi a ogni richiesta degli editori dei giornali di carta, lo si era già capito nelle scorse settimane quando, Palazzo Chigi, davanti all’anacronistica richiesta della Fieg – la Federazione italiana degli editori di giornali – di rimuovere dal sito internet della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la rassegna stampa, si era affrettato ad accoglierla, anziché respingerla al mittente o, almeno, respingerla in attesa di avviare un ragionamento che tenesse nel debito conto gli interessi generali, primo tra tutti, quello all’accesso all’informazione da parte dei cittadini.

Chi comanda davvero nel rapporto tra Palazzo Chigi e gli editori di giornali, lo spiega bene questa storia: un Governo che proprio mentre garantisce agli editori, in via d’urgenza, decine di milioni di euro di contributi non è neppure in grado di negoziare con questi ultimi la permanenza online – nell’interesse dei cittadini – di qualche bit di informazione su un sito istituzionale, è un Governo, evidentemente, succube della faccia meno nobile dell’informazione italiana.

In questo, un Governo in nulla diverso dai precedenti.

Ma c’è di più.

Il decreto legge ancora il riconoscimento dei contributi all’editoria alla circostanza che gli editori vendano almeno il 30/35% – a seconda che si tratti di giornali nazionali o locali – delle copie distribuite.

Si continua, dunque, a perseverare nell’errore di finanziare l’inefficienza delle società editoriali e a sperperare denaro pubblico non già contribuendo alla diffusione della buona informazione ma di qualsiasi macchia di inchiostro con la quale si imbratti la carta.

Non c’è imprenditore efficiente che immetterebbe – se dovesse farsi carico in prima persona dell’invenduto – quotidianamente sul mercato il settanta per cento di prodotti destinati al macero o alla distruzione.

D’accordo a finanziare quell’imponderabile percentuale di copie che è ragionevole possa rimanere invenduta nonostante stime ed analisi di mercato corrette e puntuali ma perché lo Stato dovrebbe continuare a finanziare la distribuzione di milioni di copie di giornali destinate, in modo assolutamente prevedibile, a rimanere invendute?

C’è, infine, la pagina più buia del decreto legge sui contributi all’editoria appena varato da Palazzo Chigi ed è proprio quella che avrebbe, invece, potuto e dovuto contraddistinguere l’azione di questo Governo da quella dei precedenti: la disciplina dei contributi all’editoria digitale.

“Il Governo pensa quindi anche a un maggiore impegno verso l’editoria online”, aveva detto, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria, Paolo Peluffo, nei mesi scorsi, facendo diffondere la speranza che si fosse alla vigilia di una piccola grande rivoluzione per l’informazione online.

A spegnere le illusioni – perché di questo si trattava – dei tanti piccoli e meno piccoli editori dell’online, tuttavia, ci hanno pensato le previsioni con le quali il Governo – per ragioni sin troppo facili da comprendere – ha deciso di riservare, almeno per il momento, i contributi all’editoria digitale solo agli editori che abbiano già ricevuto contributi per l’anno 2011 e, quindi, ai soliti compagni di merende di sempre.

Questi ultimi, evidentemente, non hanno accettato – ammesso che il Governo l’abbia loro paventata – l’idea di dover dividere una torta da decine di milioni di euro con la moltitudine di soggetti che, negli ultimi anni, hanno deciso di avventurarsi nell’editoria online, contribuendo, in modo determinante, al pluralismo e alla libertà di informazione in Italia.

Perché il futuro – in digitale – di alcuni è più importante del futuro – sempre in digitale – di altri?

Perché si dovrebbe finanziare la migrazione verso il digitale dei vecchi e non anche quelle nuove e numerose iniziative editoriali nate in digitale?

Certo, di queste ultime, ci si occuperà nel disegno di legge varato dal Governo e che approderà nelle prossime settimane in Parlamento ma, una cosa è poter contare, subito, sulle risorse economiche cui i nuovi editori digitali avrebbero avuto accesso se il decreto legge avesse riguardato anche loro e una cosa – completamente diversa – è vedersi condannati a sperare che l’iter del disegno di legge sulla riforma strutturale della disciplina del settore sia celere e non riservi loro brutte sorprese.

 Il futuro, soprattutto quando si parla di informazione, dovrebbe essere garantito a tutti, a parità di condizioni e mezzi e senza privilegi, favori o clientele.

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