Quello che (non) ho, ieri prima puntata su La7, è soprattutto il tasto di un telecomando: il terzo che sta per Rai3.
Quello che (non) ho, scampagnata raffinata oltre il servizio pubblico, è Vieni via con me più cresciuto e più disinvolto. Il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano è una filastrocca che s’interrompe con la parola migliore. Quella che scrittori, attori, giornalisti, comici, artisti e famosi vari cercano di interpretare con il ritmo di un’omelia domenicale e il tono di un’estrema unzione. Il viso bonario di Fazio, ineccepibile padrone di casa momentaneamente in trasferta, è il riflesso perfetto per un Saviano che cerca se stesso mentre si mostra a un pubblico televisivo. Quel Saviano che replica, non più imbarazzato con le mani che sfiorano il naso e i lobi, a un editoriale estremo di Giuliano Ferrara: “Saviano al posto di Bocca. Uno che non ha mai detto nulla di interessante, che non ha un’idea in croce, che scrive male e banale, che parla come una macchinetta sputasentenze, che brancola nel buio di un generico civismo, che è stato assemblato come una zuppa di pesce retorico a partire da un romanzo di successo, si prende la rubrica di un tipo tosto che di cose da dire ne aveva fin troppe”.
Lo scrittore di Gomorra osserva l’Elefantino con distacco lessicale e un ritornello che conosciamo: “E’ fango. Vuole dire che faccio bene. Queste cose mi galvanizzano”, dice a Enrico Mentana che tira la volata col telegiornale. Fine. Le parole possono cominciare a fluire, un po’ buoniste e un po’ coreografiche, fra l’Officina grandi riparazioni di Torino: le fotografie di un mondo bestiale, le citazioni di Gianni Rodari, le canzoni di Fabrizio De Andrè che sapeva tenerle insieme, le parole.
Il palco è uno studio, immenso e buio: non è un pulpito, è un microfono ben direzionato. Più che una scaletta, c’è un percorso che rimbalza fra il leggìo e l’oratore e atterra, sempre, in sentimenti spensierati, ottimismo, sacralità: all’improvviso la borsa italiana indica umori positivi. Qualcuno può invocarne la chiusura per eccessivo rialzo. E così Saviano, senza paura di smentita, può ripetere all’ex ministro Roberto Maroni che la malavita nel Nord leghista ci sguazza, eccome. Il tratto di Michele Serra, e lo squadrone di autori arruolati e già affiatati (Francesco Piccolo, Pietro Galeotti), si nota con Fazio, che maneggia l’ironia con cautela, ma fa ridere più di chiunque con l’elenco (rievocazione di Vieni via con me) di quello che dovremmo dimenticare o non imparare mai: “Burlesque, faccendiere, escort, spread, briffare, esclusivo, televoto, tempistica, padania, movida”.
Se la litania di Pierfrancesco Favino per la figlia che sta per nascere può effettivamente commuovere, non soltanto perché recita a perfezione, le statistiche di Saviano su imprese e lavoro – che torna a toccarsi il naso, emozionato – possono annoiare. Saviano ha un’enfasi costante e una mimica ciondolante che, forse, utilizza anche se ordina un caffè al bancone. Funziona, però. Quando la parola selezionata è negativa (morte, suicidio, fallimento), l’atmosfera è cupissima: seria, certo, eppure estremamente sceneggiata. Come se l’emozione avesse bisogno di smorfie esagerate per farsi sentire.
Quello che (non) ho è talmente strutturato, intrecciato con scrupolo, che può apparire a volte troppo vero, a volte troppo finto.