Gli ingredienti ci sono tutti: il potere, il quattrino, l’amore filiale, la stupidità filiale e la cecità materna, l’avidità, il castelletto di Gemonio, la malattia e la corte.
Una buona penna avrebbe potuto scrivere il declino di un uomo, solo al comando, fiaccato da una lunga e penosa malattia che ormai, ovattato in mezzo ad una corte di infingardi padani, ha barattato la libertà del suo popolo per la idiozia dei propri figli.
A rendere comica, e non tragica, questa storia, l’antropologia e il nanismo dei personaggi che la compongono. Perché, in tutte le storie, il fisico del ruolo ha una sua enorme importanza.
E qui, comunque la si giri, di spessore umano e intellettuale che, anche nel male rendono tragici ed emblematici i protagonisti, non ce ne è ombra. La caduta di Bossi rientra nei canoni valoriali di una piccola e ignobile borghesia che nemmeno di fronte a un passaggio nella storia politica di questo paese, ha saputo liberarsi da generici e insignificanti sentimenti.
Rientra in una concezione clanica della famiglia, esatta negazione del concetto di comunità, dove meriti e demeriti si annullano e la morale è preceduta da un alfa privativo. Si assiste al disfacimento di un mondo familiare che non è stato capace di diventare adulto nelle relazioni e nelle responsabilità.
Non ci sarò un lieto fine, un suicidio ad esempio, che nobiliti alcuni di questi personaggi. Al massimo un divorzio o mille recriminazioni per gli errori commessi. Non assisteremo all’ineluttabile perché le furbizie e le astute litanie che addossano ad altri responsabilità proprie, non contemplano la resa. E il “ Bossi “, nell’additare gli altri, ha costruito la propria fortuna. Che si è dissolta nel nulla da cui proveniva.
Una prece.