Il Procuratore della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, questo mercoledì si è recato a New York per riferire davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in merito alle indagini in corso all’Aia sulla Libia a seguito della risoluzione 1970 del febbraio 2011.
È noto anche che a seguito di questa risoluzione il Procuratore richiese ed ottenne a velocità quasi lampo (rispetto ai normali tempi della giustizia internazionale) l’emissione di tre mandati di arresto per crimini contro l’umanitá: uno per Muammar Gheddafi, uno per suo figlio Saif Al-Islam e uno per suo genero Abdullah Al-Senussi.
Va detto che in un primo momento questa efficienza dell’Onu e della Corte venne salutata positivamente da molti esperti di giustizia internazionale : sembrava che la comunità internazionale stesse effettivamente facendo leva sulla giustizia penale come alternativa all’uso della forza per intervenire tempestivamente a bloccare – per quanto possibile – le conseguenza drammatiche sui civili di un conflitto ancora in corso.
Certo, molte illusioni (sulle vere intenzioni dell’Onu) si sgretolarono pochi giorni dopo, quando con risoluzione 1973 venne approvato l’intervento militare delle forze della Nato in Libia.
In ogni caso molte critiche erano state sollevate fin da subito, più che altro nel senso che si trattasse di un ennesimo esempio di giustizia parziale e politicizzata, espressione di un “doppio binario”: perché tale interventismo giudiziario senza tentennamenti (la risoluzione in sede Onu venne adottata all’unanimità, senza un solo voto contrario e senza astensioni, caso più unico che raro in questo ambito!) nei confronti della Libia e mani legate nei confronti della Siria (ad esempio)?
Come giustificare che pochi giorni sono bastati per fare scattare il Consiglio di Sicurezza e la Corte Penale Internazionale in questo caso, mentre altre situazioni altrettanto o anche molto più gravi attendono da anni, alcune da decenni, un barlume di giustizia (leggi: la situazione in Palestina)?
Al di là di tali considerazioni, quel che colpisce oggi è l’impasse quasi paradossale che si sta delineando nei confronti dei processi ai sospetti responsabili dei crimini libici. In un contesto – quello dei crimini internazionali – in cui normalmente nessuno vuole occuparsi della punizione dei colpevoli, nel caso libico pare invece esserci l’imbarazzo della scelta.
Lasciamo ovviamente da parte Gheddafi (padre) che è stato ucciso praticamente in diretta televisiva mondiale a Sirte da parte dei ribelli il 20 ottobre 2011, giorno che marca la sconfitta del vecchio regime e l’inizio del nuovo governo libico.
Suo figlio Saif Al-Islam è stato invece arrestato a novembre 2011 e, nonostante le due dita mozzate e i denti persi, è certamente vivo e vegeto, detenuto a Zintan, circa 90 miglia a sud-ovest di Tripoli. Da novembre la Corte sta cercando invano di ottenere la sua consegna, cui la Libia sarebbe obbligata ai sensi della risoluzione Onu. Ma le nuove autorità libiche non hanno alcuna intenzione di mollare l’osso e, a suon di istanze giudiziarie (l’ultima delle quali di pochi giorni fa), stanno tentando tutte le vie per dimostrare di non avere bisogno dell’intervento della Corte e di potere celebrare il processo a Tripoli. Ciliegina sulla torta, i leader della cittadina di Zintan (distaccati dal nuovo governo centrale libico) a loro volta fanno sapere di non avere alcuna intenzione di consegnare l’accusato a Tripoli e di volere piuttosto celebrare il processo a Zintan.
Il terzo uomo, Abdullah Al-Senussi è stato invece catturato in Mauritania, dove ancora si trova mentre pendono nei suoi confronti richiese di estradizione dalla Libia, dalla Corte Penale Internazionale e dalla Francia.
Insomma un tira e molla tra la Corte Penale Internazionale, diverse autorità libiche, la Mauritania e persino la Francia. Tutti vogliono processarli.
Se è chiaro cosa vogliano dimostrare le nuove autorità libiche – ossia di essere in grado di gestire i processi in modo adeguato e secondo gli standard internazionali richiesti, e quindi di essere uno Stato degno di tale nome – le preoccupazioni della Corte non appaiono infondate. Per il nuovo governo libico gestire processi tanto delicati sarebbe infatti una enorme sfida e poche certezze vengono fornite, specie sul rispetto dei diritti degli accusati.
Non è un caso che l’avvocato che rappresenta Saif Gheddafi davanti alla Corte si stia battendo duramente perché l’Onu intervenga a garantire che il processo sia sottratto ai libici e celebrato all’Aia.
D’altra parte vi sono due importanti considerazioni da fare: la prima è che per suo statuto la Corte è complementare alle corti nazionali e può intervenire solo se queste non sono in grado di, o non vogliono, procedere.
La seconda è che il mandato della Corte, come definito dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza, è limitato ai crimini commessi dal febbraio 2011, ed esclude che la Corte possa occuparsi di eventuali responsabilità di individui stranieri (leggi: le forze Nato).
Chi giudicherà dunque i crimini commessi durante il regime di Gheddafi? E chi giudicherà se eventuali crimini siano stati commessi dalle forze Nato durante l’intervento dello scorso anno?