Il legale della famiglia a Der Spiegel ha affermato di avere le prove che i militari ricevettero ordine di sparare ai giornalisti durante i tumulti. Il fotoreporter fu ammazzato dall'esercito regolare, secondo il Metropolitan police bereau di Bangkok, e non dai terroristi come dichiarò il vice ministrò
Alessio Fraticcioli, China Files
Il 19 maggio 2010 moriva a Bangkok, raggiunto da un colpo all’addome, il fotoreporter italiano Fabio Polenghi. Polenghi perse la vita sul viale Ratchadamri, nel pieno centro della capitale thailandese, mentre assisteva alla repressione militare contro i manifestanti anti-governativi noti alle cronache come “camicie rosse.” Le camicie rosse erano scese in strada a marzo per chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva e nuove elezioni. Abhisit era a capo di un governo formatosi due anni prima in seguito ad un ribaltone favorito dalle gerarchie militari. Fiduciosi in una inevitabile vittoria politica in virtù del consistente seguito popolare, decine di migliaia di rossi, molti dei quali provenienti dal povero ma popoloso nordest del paese, entrarono festanti a Bangkok in una serie di colorati e rumorosi caroselli. Dopo aver dato vita, il 14 marzo, alla più imponente manifestazione nella storia thailandese, le camicie rosse occuparono alcuni luoghi simbolo di Bangkok, come la piazza dove si erge il Monumento alla Democrazia e la zona di Ratchaprasong, il cuore commerciale della capitale. Il loro obiettivo era costringere il governo ad accettare la loro richiesta: nuove elezioni al più presto.
A quello che molti osservatori descrissero come un braccio di ferro tra il popolo e l’ammart (l’elite), Abhisit reagì dichiarando lo stato d’emergenza che, proibendo raggruppamenti di più di cinque persone, rendeva automaticamente fuorilegge la distesa di manifestanti radunata nella capitale, dando così il via libera all’intervento militare. Dopo settimane di trattative, l’ordine fu ristabilito dall’Esercito Reale della Thailandia. L’intervento di carri armati, soldati e cecchini ebbe un prezzo elevatissimo: 91 morti, 1300 feriti e 27 edifici distrutti. Tra le persone decedute due stranieri: il nostro Polenghi e un reporter giapponese della Reuters, Hiro Muramoto.
Inizialmente, il vice primo ministro Suthep Thaugsuban sostenne che a uccidere Polenghi fosse stata una granata lanciata da un “terrorista.” Secondo Suthep, Polenghi sarebbe morto “al fianco” di un soldato, entrambi vittime dei manifestanti. Tuttavia, Suthep venne prontamente smentito da diversi testimoni oculari, sopralluoghi e filmati analizzati fotogramma dopo fotogramma: Polenghi è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco mentre si trovava tra i manifestanti che indietreggiavano all’avanzare dei soldati. Un’ulteriore prova sono i risultati dell’autopsia: Polenghi è morto a causa di un proiettile che ha perforato il cuore e ha causato danni ai polmoni e al fegato. La famiglia Polenghi, l’Ambasciata Italiana a Bangkok e la Commeettee to Protect Journalists (CPJ) chiesero immediatamente “un’indagine approfondita e trasparente.” A due anni dal fatto, il Metropolitan Police Bureau di Bangkok ha concluso che gli assassini di Polenghi non furono i “terroristi” rossi di cui parlava l’ex vice primo ministro, ma i soldati che il suo governo utilizzò per sparare sui manifestanti.
Anuchai Lekbamrung, che dirige l’inchiesta, ha dichiarato che dieci testimoni, forti prove e chiari indizi portano tutti a concludere che la morte di Polenghi è responsabilità delle autorità statali. Di conseguenza, il caso è stato inoltrato alla Procura per individuare e perseguire i responsabili. I fatti dell’aprile e del maggio 2010 rappresentano uno dei capitoli più neri della storia di questo paese del sudest asiatico. Nel suo report del 2011 sulla situazione dei diritti umani nel mondo, Human Rights Watch (HRW) aveva concluso che “i Diritti Umani in Thailandia nel 2010 hanno subito un brusco e rapido deterioramento” e che “le autorità thailandesi hanno risposto con forza eccessiva” alle proteste, a tratti violente, dei manifestanti. Fonte di particolare “preoccupazione,” secondo HRW, è stata l’ostinazione del governo Abhisit nel “sostenere di rispettare i diritti umani mentre maltrattava i detenuti e portava avanti una vasta campagna censoria.”
Secondo la National Human Rights Commission, dopo la repressione militare ci sono stati arresti arbitrari, detenzioni ingiustificate e torture volte a estorcere false confessioni. Robert Amsterdam, il legale della famiglia Polenghi, in un’intervista a Der Spiegel dichiarò di avere le prove che i soldati ricevettero l’ordine di sparare ai giornalisti. Affermazioni ad oggi ancora non confermate. Nel frattempo le elezioni del luglio 2011 hanno sostituito il governo Abhisit con un governo di un altro colore, più vicino alle “camicie rosse.” Nel tentativo di promuovere una “riconciliazione nazionale,” il nuovo governo ha stanziato due miliardi di baht (circa 50 milioni di euro) per le famiglie delle vittime delle violenze di quei mesi. Ma “i risarcimenti non saranno mai abbastanza per chi ha perso una persona cara,” ha dichiarato Isabella Polenghi, sorella di Fabio, in una recente intervista al quotidiano thailandese The Nation: “La verità è la cosa più importante.”