Giampiero Rossi era stato nominato caporedattore del settimanale A da pochi giorni quando mi sedetti alla sua scrivania per avere istruzioni su quella che sarebbe stata la mia prima opportunità di lavoro seria nel mondo del giornalismo. La direttora, Maria Latella, si ricordava dei miei articoli come collaboratore freelance da Beirut nel 2006, e proprio il giorno del mio compleanno mi aveva telefonato comunicandomi che si era aperta la possibilità di lavorare in redazione, in sostituzione di una collega malata.

Non sapevo per quanto tempo sarebbe durato il mio rapporto con Rcs, ma dopo anni di gavetta come redattore di riviste tecniche e miriadi di collaborazioni con quotidiani e magazine vari, entrai nella redazione di A realmente emozionato e nervoso.


Rossi, giornalista di razza e lunga esperienza, era approdato in Rizzoli dall’Unità di Padellaro, dove si occupava di lotte sindacali, diritto del lavoro, politica. A confronto il sottoscritto era un volenteroso pischello, null’altro.


Mi fece sedere di fronte a lui e con poche parole mi chiese di attendere che finisse di scrivere quello su cui era impegnato. Minuti che sembravano non passare mai, pieni di ansia. Mi chiedevo che capo potesse essere, se sarebbe stato distaccato o alla mano, se mi avrebbe relegato a semplice passacarte o mi avrebbe dato fiducia.


Quando terminò di battere sui tasti, alzò finalmente lo sguardo, mi sorrise e mi disse: “Ci dobbiamo aiutare. Io sono appena arrivato qui e devo ancora capire come funziona la macchina. Preparati a una lunga estate insieme“. Nessuna parvenza da superbo giornalista navigato – davvero troppo diffusa in questo settore – nei confronti dell’ultimo arrivato. Nessuna traccia di fastidio a doversi sobbarcare anche quella magagna: oltre al nuovo lavoro, pure un pivello da svezzare.


E fu una meravigliosa estate di lavoro, di apprendimento e di giornalismo. Giampiero mi ha insegnato la calma nei momenti più convulsi della vita di un giornale, mi ha strigliato incentivandomi a migliorare, mi ha supportato nell’imparare a incassare i modi più bruschi del direttore. Quando la sera uscivo dalla redazione per andarmene a casa nel vuoto afoso dell’agosto milanese ero felice e soddisfatto, e spesso anche divertito, sì perché Giampiero è pure una persona davvero spassosa. Non ne ho più incontrati di colleghi così, purtroppo no.


Perché, direte voi, tutta questa spataffiata incensante?


Nel suo monologo sull’Eternit mercoledì sera Saviano ha attinto a piene mani a due libri scritti da Giampiero sul caso (La lana della salamandra e Amianto) in anni di duro lavoro di ricerca e di inchiesta, senza citarli. E ieri Giampiero ha rivendicato la paternità di quelle frasi con una lunga lettera sul Fatto dai toni mai rancorosi. Ha chiesto correttezza senza aggredire, coerenza senza insultare. Merce rara di questi tempi, in cui dividersi in fazioni sbraitandosi violenza addosso pare lo sport nazionale, specie tra i baroni del giornalismo.


Saviano lo conoscete già tutti molto bene. Forse era il caso di raccontarvi un po’ di Giampiero Rossi, perché, come ha scritto nella sua lettera, “Saviano deve continuare il suo prezioso lavoro, ma stando più attento anche al lavoro dei tanti colleghi che cercano di fare altrettanto, quasi sempre con minore visibilità ma quasi mai con minore impegno“.


Ho avuto il privilegio di collaborare ancora con Giampiero alla stesura di un libro sul drammatico silenzio che avvolge tutti quegli uomini e quelle donne che col proprio lavoro perdono la salute (Il lavoro che ammala). Siamo andati casa per casa, ad ascoltare le storie di dolore di quelle persone. Questo il metodo di lavoro che Giampiero mi ha insegnato. Nel caso Saviano avesse bisogno di ulteriori utili spunti.

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