E’ ancora tutta da decifrare la matrice dell’attentato contro la scuola di Brindisi, ma la pista mafiosa è supportata da diverse suggestioni. E dire mafia non significa dire, o dire soltanto, Sacra corona unita. Una delle ipotesi prese in considerazione dagli investigatori è che l’episodio rientri in una partita nazionale che coinvolge altre organizzazioni, in particolare Cosa nostra. Le simbologie non mancano: l’istituto colpito intitolato a Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone; la data prossima al ventennale del loro massacro, il 23 maggio 1992; la concomitanza con l’arrivo a Brindisi della Carovana antimafia. E il momento scelto, l’arrivo del pullman da Mesagne, capitale della criminalità brindisina, sfidata sul posto dall’attività di Libera e dal lavoro dei volontari sui terreni confiscati ai boss. Due ragazze ferite, tra l’altro, sono figlie di un imprenditore che ha collaborato con la rete fondata da don Luigi Ciotti.
Non solo. A San Pancrazio Salentino, a pochi chilometri da Mesagne, vive da marzo Maria Concetta Riina, 36 anni, figlia del capo dei capi di Cosa nostra, che ha lasciato Corleone e si è trasferita insieme al marito Tony Ciavarello e ai suoi tre figli. Altri elementi a prima vista contro la pista mafiosa: l’utilizzo di ordigni rudimentali come le bombole del gas, e l’obiettivo – le ragazzine di una scuola di moda – decisamente impopolare per una criminalità che vive anche di consenso sociale. A meno che non si tratti di un messaggio, spietato ma sofisticato, diretto a pezzi dello Stato in grado di coglierlo al volo, senza la necessità che sia svelato all’opinione pubblica. Tornano in mente il recente tentativo di suicidio in carcere di Bernardo Provenzano – sul quale il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha sollevato forti dubbi – e le parole del figlio di Binnu, Angelo, che intervistato da Servizio Pubblico, a proposito della detenzione del padre e della necessità di curarlo ha ricordato che “violenza genera violenza”.
Provenzano, Riina, le stragi. Elementi che riportano alle fratture interne a Cosa nostra e alla “trattativa” tra Stato e mafia. Fatti lontani, ma tutt’altro che chiusi, come dimostra l’indagine ancora in corso a Palermo e il dibattimento del processo Mori, strettamente intrecciati alla stagione delle bombe. E, soprattutto, vent’anni dopo non è venuto meno il punto cardine delle richieste di Cosa nostra allo Stato: l’abolizione del 41 bis, il regime di carcere duro. A cui è attualmente sottoposto anche il boss di Mesagne Pino Rogoli, il fondatore della Sacra corona unita. Suggestioni, come l’analisi del procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, che coordina le indagini sugli attentati del 1992, intervistato dall’Ansa poche ore dopo la strage di Brindisi. Gozzo, pur non citando l’attentato alla scuola, ricorda che oggi come allora l’Italia vive un momento di radicale svolta politica: ” I momenti di passaggio sono sempre pericolosi. E le mafie hanno ancora gli arsenali pieni di armi. Bisogna tenere alta la guardia, come sempre”.
Da Capaci in poi, afferma Gozzo, “Cosa nostra decide di adottare modalità stragiste di tipo terroristico, come aveva già fatto con Dalla Chiesa negli anni ’80”, ricorda all’Ansa. E dopo l’assassinio di Falcone, osserva Gozzo, “le altre sei stragi che seguiranno in circa un anno sventreranno città, uccideranno venti persone. Una strategia di vera e propria guerra. Ma, come diceva Riina, si fa la guerra per poi fare la pace”.
In sintonia con lo scenario stragista è la sociologa Giovanna Montanaro. L’attentato a Brindisi “mi fa pensare alla strategia della tensione”, spiega all’agenzia Adn Kronos. “Quando questo Paese sta per imboccare un via di cambiamento accade sempre qualcosa, ce lo insegna non solo la storia della mafia, ma la storia dell’Italia, basta pensare a Piazza Fontana”. Anche Montanaro mette in fila i “simboli”, come l’anniversario di Capaci, il nome della scuola, l’arrivo della Carovana antimafia, e aggiunge: “A livello locale c’è stata una forte, recente ripresa dell’attività criminale, legata anche all’uscita dal carcere di alcuni capi storici della Sacra corona unita che, non dimentichiamolo, è una vera e propria organizzazione mafiosa, e più segnali mostrano il radicamento, il consenso di cui gode la Scu. Perché correre tutti i rischi connessi a un’azione così scellerata e clamorosa? Penso che a essere coinvolta non sia solo la mafia locale”, è la conclusione. “Ci sono nuovi fermenti, i risultati delle amministrative, un’atmosfera di cambiamento, soprattutto da parte dei giovani. E’ come se si volesse dire ‘state fermi’. Leggo una firma di mafia non solo locale e forse con altri ingredienti. Non sarebbe la prima volta nella nostra storia”.