La decisione della Corte costituzionale sull’articolo 4 della legge 40 arriva dopo otto anni di forti polemiche sulla normativa approvata dal centrodestra nel 2004 durante il governo Berlusconi. Il dibattito si è concentrato proprio sull’articolo 4, il cuore della legge, che prevede il divieto della fecondazione attraverso il seme di un donatore o l’ovocita di una donatrice esterni alla coppia. Un divieto che, formulato così com’è, vige solo in Italia. Ecco come tutto è cominciato.
Tutto vietato. Alle 19,15 del 11 febbraio 2004 le deputate dell’opposizione indossano una maschera bianca. Nell’aula di Montecitorio è appena passata la legge 40. Solo chi è sterile ha diritto alla procreazione medicalmente assistita. Ma mai con il seme o l’ovocita di una terza persona, nemmeno se uno dei due non è più fertile perché ha subìto una chemioterapia. È vietata alle coppie fertili, anche se portatrici di malattie genetiche o virali. Inutile dire che per i single non se ne parla. E che gli embrioni non utili per una gravidanza non possono essere mai usati ai fini di ricerca. Perfino Stefania Prestigiacomo, all’epoca ministro per le Pari Opportunità del secondo governo Berlusconi, ammette di avere dubbi sulla costituzionalità della legge. Ma in compenso le norme volute dal centrodestra hanno il sostegno di Francesco Rutelli. E anche Rosy Bindi, alla fine, le vota. La legge passa con 277 sì, 222 i no. I Radicali (all’epoca rappresentati da Daniele Capezzone), Ds, Rifondazione e Pdci, Idv e Verdi promuovono un referendum per abrogarla.
Quattro milioni di firme. Pur di evitarlo, le provano tutte: Forza Italia con una proposta di legge che modifica dopo appena sei mesi le norme appena approvate (elimina il divieto nel caso di coppie portatrici di malattie). Un “papocchio” da cui i referendari non si fanno incantare, nonostante anche nel centrosinistra ci siano voci discordanti (Enrico Letta disse: “Arrivare al referendum sarebbe una sconfitta della politica”). Poi ci provano la Prestigiacomo e l’Udeur. Intanto è arrivato settembre e ci sono le firme da portare in Cassazione: sono 4 milioni. È lì che arriva il testo di Giuliano Amato: si rivolge ai parlamentari dell’Ulivo, li invita a trovare un accordo bipartisan. Intanto dalla Consulta è arrivato il via libera ai quesiti. Il referendum si farà il 12 e 13 giugno del 2005. La campagna per l’astensione è fortissima: la lancia il cardinale Ruini, la conduce il Comitato Scienza e Vita (presieduto da Paola Binetti) che arriva dappertutto, perfino negli asili. Gianfranco Fini, a un mese dal voto, annuncia a sorpresa che voterà alcuni sì. Finisce male: alle urne si presenta solo il 25% degli elettori.
Pioggia di ricorsi. Nel giro di due anni, le coppie che vanno all’estero per tentare la fecondazione si moltiplicano per quattro (in cinque anni hanno toccato quota 50 mila). Chi resta in Italia comincia la battaglia in Tribunale. Un giudice di Cagliari dice a una coppia di portatori sani di beta-talassemia che negli ovuli fecondati c’è il rischio della malattia: la diagnosi pre-impianto, vietata dalla legge 40, è un loro diritto. Succede anche al Tribunale di Firenze: il giudice dice che i test pre natali si possono fare, purché non servano a scegliere il colore degli occhi del nascituro. A gennaio 2008 il Tar del Lazio boccia le linee guida della legge e arrivano i ricorsi a pioggia. Ad aprile 2009 la Consulta boccia uno dei cardini della 40, il divieto a impiantare più di tre embrioni. Dieci mesi più tardi dice che, se la donna ha problemi di salute, è legittima anche la crioconservazione degli embrioni.
L’ultima parola. La Corte Costituzionale si è pronunciata oggi sull’articolo 4 della legge, quello sulla fecondazione eterologa. Il ricorso è stato presentato nel 2010. Nel frattempo, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’eterologa è entrata ufficialmente nella lista dei “peccati frutto della scienza” stilata dalla Santa Sede.
da Il Fatto Quotidiano del 18 maggio 2012
Aggiornato dalla redazione web il 22 maggio 2012