La capacità di scatenare una guerra o di vincere la pace albergano entrambe nell’uomo. I conflitti hanno iniziato a far parte della vita della nostra specie all’epoca dei cacciatori-raccoglitori e da allora non ci hanno più abbandonato. Combattiamo per il cibo. Per un compagno. Per un confine. Per il primato su un’altra popolazione. La prestigiosa rivista Science, edita dall’American association for the advancement of science (Aaas), dedica il suo ultimo numero al tema della guerra. E descrive come la scienza, dopo aver “perso la propria innocenza” con Hiroshima e Nagasaki, stia contribuendo a sanare i conflitti tra gli uomini.

Proprio in queste settimane i paesi della Nato provano a elaborare una complessa exit strategy dalla guerra in Afghanistan, un conflitto che dura ormai da 11 anni, mentre il governo d’Israele valuta l’eventualità di sferrare un massiccio attacco aereo contro le centrali atomiche degli Ayatollah. Sulle pagine di Science studiosi di varie discipline si confrontano sul ruolo della scienza nella comprensione dei fattori che possono scatenare conflitti. “La violenza fa parte della nostra natura – sostiene nell’editoriale David Hamburg, ex presidente dell’Aaas – La nostra specie ha una lunga tradizione di disprezzo verso lo straniero, l’appartenente a un gruppo considerato altro da sé, contro il quale si è scontrato in modi e luoghi sempre diversi, utilizzando le tecnologie offensive più cruente disponibili di volta in volta nel proprio tempo. La capacità dell’uomo d’incitare alla violenza – afferma Hamburg – non è mai stata così grande come ai nostri giorni”.

Si mostra più ottimista del suo collega Steven Pinker, neuroscienziato della Harvard University : “Il XX secolo è stato il più sanguinario della storia dell’uomo. Ma, paradossalmente, le società industrializzate sono molto più sicure delle prime piccole comunità di cacciatori-raccoglitori”. Lo studioso capovolge il classico ritratto dell’uomo delle caverne pacifico e gentile. “Le morti violente erano molto più numerose prima della comparsa degli stati. Le società complesse con il loro sistema di leggi riducono il rischio di scontri. Lo aveva capito già alla metà del XVII secolo il filosofo inglese Thomas Hobbes, che – ricorda Pinker – sosteneva come la vita senza l’ordine sociale e una rigida gerarchia fosse solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve”.

Ma perché combattiamo? L’uomo è davvero biologicamente destinato ad autodistruggersi? Secondo l’analisi di Science, “alle radici di guerre e conflitti c’è spesso l’identificazione in un gruppo, la famiglia o un’etnia, che ci porta a disumanizzare chi non appartiene al proprio”. Naomi Ellemers, della Leiden University, ha studiato a fondo le dinamiche di gruppo, constatando come molto spesso questo diventi più importante dell’individuo, tanto da condizionarne i pensieri e i comportamenti. “Il gruppo, solitamente considerato fonte di sostegno, può minare la fiducia in sé stessi, finendo per aumentare le tensioni sociali”. E cita l’esempio dei disordini negli stadi o dei maltrattamenti dei prigionieri iracheni da parte di alcuni soldati americani. “Il gruppo può portare le persone ad assumere un comportamento opposto agli ideali personali, se questo sembra l’unico modo per acquisire importanti obiettivi collettivi, facendo apparire la violenza giustificata per ottenere un cambiamento sociale. Allo stesso modo – aggiunge Ellemers – anche l’interesse personale, come l’attenzione alla propria sicurezza, può annullarsi nel perseguimento d’ideali condivisi”. 

La rivista Science analizza anche il peso delle religioni nella genesi dei conflitti. In uno studio di Scott Atran e Ginges Jeremy, rispettivamente del CNRS-Institut Jean Nicod di Parigi e della New School for Social Research di New York, si sottolinea come le questioni religiose abbiano motivato solo una piccola minoranza delle guerre. Ma, se da un lato la religione può favorire la fiducia nel “noi”, dall’altro può anche aumentare la sfiducia negli altri. “A questioni secolari che potrebbero essere risolte pacificamente spesso si sovrappone un quadro religioso che rende non negoziabili le posizioni in gioco – affermano Atran e Jeremy -. Attraverso la religione, in situazioni di tensione, banali preferenze sociopolitiche possono diventare valori sacri che operano come imperativi morali, diventando immuni a ogni trattativa finalizzata alla composizione del conflitto”. Se i gruppi si differenziano su basi religiose o valori considerati sacri, il rischio è che aumenti il loro grado di coesione interna fino alla decisione estrema: sacrificare la propria vita pur di uccidere esseri umani appartenenti ad altre comunità. Gli studiosi, tuttavia, non sono ancora riusciti a spiegare cosa renda così inflessibile la volontà suicida dei terroristi kamikaze.

Altra fonte di conflitto sono i pregiudizi razziali. Secondo l’analisi di Science, “il vero indicatore per valutare la probabilità di una guerra è il grado di discriminazione verso le donne all’interno di una società”. Nel loro studio Richard Crisp e Rose Meleady, dell’University of Kent, mostrano come i nostri comportamenti sociali siano legati a due differenti sistemi cognitivi. Da un lato, abbiamo un’ancestrale propensione a classificare le persone nelle categorie “noi” e “loro”; dall’altro il nostro cervello ha anche un sistema dedicato all’aggiornamento delle aspettative sulla base di nuove informazioni. “Dove i gruppi tendono a essere chiusi in sé stessi – evidenziano Crisp e Meleady – ad agire è in prevalenza il primo sistema cognitivo, mentre quando la politica incoraggia le persone a far proprie più appartenenze sociali trasversali si mobilita il secondo sistema, che riduce le emozioni negative stimolando la creazione di nuove alleanze”.

Secondo le conclusioni di Science, “nella scelta tra guerra o pace la capacità di mediare tra i conflitti prevarrà solo se l’uomo riuscirà ad abbracciare una comune identità con altri gruppi”. Il rischio, altrimenti, è che si concretizzi il timore di Einstein: “Non so con quali armi verrà combattuta la terza guerra mondiale, ma la quarta si combatterà con clava e pietre”.

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