Il 13 giugno prenderà il via nel Porto Antico di Genova il Suq Festival 2012, alla sua quattordicesima edizione. Ma come si vive in un suq, un mercato arabo, ai nostri giorni? Quale ponte, quale sguardo tra il tendone genovese che si trasforma per due settimane in un mercato-teatro sul mare – con cucine di ogni parte del mondo e spettacoli, musiche, dialoghi con artisti e rappresentanti di tantissimi popoli, culture e religioni – e il suq di una città come Gerusalemme, centro di popoli, fedi, storie, impronte divine e contemporaneamente sanguinose lotteumane?
Lo abbiamo chiesto alla nostra amica Paola Caridi, giornalista e storica, corrispondente da Gerusalemme per diversi quotidiani e periodici italiani. Varie volte nostra ospite al Festival, tiene dal 2008 il blog InvisibleArabs.
Il suq di Gerusalemme non è così divertente, e soprattutto così inclusivo come quello di Genova, meravigliosamente colorato. Lo era un tempo, forse, quando Gerusalemme era una città cosmopolita, in una fase estremamente breve della sua storia tormentata. Alla fine dell’Impero Ottomano, all’inizio del Mandato Britannico, insomma tra inizio Novecento e anni Trenta, quando Gerusalemme tentò di fare il suo ingresso nella modernità. Allora il suq era molto meno… sospettoso.
A camminare oggi nel suq di Gerusalemme, e cioè alla porta di Damasco e nei quartieri che dalla porta di Damasco si dipanano, si scopre invece che ognuno guarda l’altro per il suo aspetto, per i suoi abiti, per le sue divise della fede. Il melting pot tipico del mercato cede il posto alla divisione perenne. Forse è perché l’antico suq è nella Città Vecchia, crogiuolo di tutte le differenze e le lotte di potere, che poco hanno a che fare con la religiosità vera.
E allora? Nessuna speranza? Forse bisogna cercare il suq da qualche altra parte. Forse bisogna iniziare una strana ricerca di pace e di inclusione nei nuovi suq, nei mall, nei supermercati della città, in periferia, dove si compra per mangiare, per nutrirsi, per vestirsi. Si compra e si cerca di non pensare, chiudendosi in una parentesi commerciale che è come stare su una nuvola, oppure su un’isola. Quando si esce da lì, però, la Gerusalemme che accoglie i suoi abitanti è sempre la stessa. E non è quella Celeste.
Abbiamo anche chiesto a Paola se la cultura possa aiutare l’integrazione e in che senso.
Più che di cultura parlerei di lingua. La lingua può aiutare l’integrazione. Parlare bene vuol dire agire bene. Con rispetto. Senza prevaricazioni, colonizzazioni, pregiudizi, brutte parole. La cultura parte da lì, dal vocabolario delle buone parole. Se cultura vuol dire uso consapevole della lingua, del vocabolario, delle parole, allora sì che la cultura aiuta l’integrazione. È la base per l’integrazione. Anche a me, come a voi, piace di più pensare non all’integrazione, ma al vivere assieme.
Paola Caridi sarà al Suq Festival delle Culture sabato 23 giugno in collegamento Skype, per una serata di letture e musiche su “Conversazioni notturne a Gerusalemme”.
di Carla Peirolero e Giacomo D’Alessandro, con Paola Caridi Nella foto: lanterna al Suq Festival 2011