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Queste Olimpiadi: cronache di attimi londinesi

I traders si svegliano alle cinque del mattino con le borse agli occhi, per vigilare altre borse, senza dubbio più attraenti. Almeno, finanziariamente parlando. I banchieri li seguono, portando borse. Sanno che dovranno traghettare o nascondere miliardi.

Altra gente si alza alla stessa ora e anche un po’ prima: operai, camerieri, segretarie e hostess. Vengono per la maggior parte dall’America Latina, dal sud e dall’est d’Europa. C’è silenzio nei bus notturni. Non c’è mai un inglese a quest’ora. Solo gli ubriachi fanno scena. Ci si sfiora con lo sguardo e si può riconoscere chi va a lavorare in metro (tute blu) e chi in hotel (pantaloni e scarpe nere). Nessuno in strada, a parte quelli che hanno la forza e la voglia di fare jogging.

Poi piano piano il resto dei Londoners si sveglia e sa che dovrà correre. Gli inglesi doc non fanno mai colazione a casa. Entrano nei fast food per prendere caffè e sandwich da portare via. Per strada la gente cammina a passo sostenuto: tutti rigorosamente in scarpe da tennis. C’è chi si ferma a comprare della frutta tra i banchi di un fruttivendolo, mentre macchine, taxi e moto sfrecciano a pochi metri di distanza. Quelli che vanno in bici stanno in mezzo, a bersi tutto lo smog e a schivare pedoni e cacca dei cavalli della polizia. Ma che bello quando dopo otto ore di lavoro in ufficio torni a casa in bici. Niente sgomitate in metro né attese estenuanti alle fermate dei bus. Nessuno stress da trasporto, che si triplicherà in estate durante le Olimpiadi. A proposito, qualcuno è riuscito a riservare almeno un biglietto? No luck at all. C’è la sensazione che la torcia olimpica, Usain Bolt e Koby Bryant passeranno nell’indifferenza di molti.

I Londoners dicono “Olimpiadi” con lo stesso sentimento con cui gli italiani parlano di “crisi”: qualcosa da cui vuoi fuggire ma ci sei dentro fino al collo, e non puoi intervenire. Solo sbuffare. Eh con questa crisi… Eh queste Olimpiadi, oltre a vederle col binocolo devo anche subirne le conseguenze…

Dalle cinque di sera in poi i bar si affollano di uomini in giacca e cravatta e donne in carriera. Birra a fiumi. Gli studenti finiscono le lezioni e si rilassano nei parchi. Almeno quando non piove. Ci sono tantissimi giovani asiatici che passano qui dai sei agli otto mesi per frequentare un corso d’inglese carissimo, o finanziato dai genitori o dallo stesso Stato. C’è chi la scuola non se la può permettere e cerca fortuna come può.

Perché Londra, nell’immaginario di molti, è sempre e ancora Londra: un posto dove imparare un lavoro, buttarsi in qualunque cosa pur di iniziare a poter sognare. Un luogo dove si fa fatica a tessere relazioni sociali, e per questo non un luogo del vivere, ma solo un binario da percorrere temporaneamente per poi fuggire o ripartire ancora. Un passaggio, per molti, verso l’età adulta. O una tappa obbligata, per chi non ha più niente da perdere o semplicemente vuole mettersi in gioco.

Mentre le ambulanze suonano e si destreggiano impazzite, portandosi vite. In una metropoli che affascina e che fa paura. Dove l’alcolismo resta un grave problema, e la violenza non cessa, nelle periferie come nelle vie più famose. A volte ti trovi in mezzo alle risse, a volte le sfiori, altre volte ancora scopri della loro esistenza sfogliando Metro o The Evening Standard. Eppure eri ad un passo. Questione di attimi. Mentre mi risuona nella mente il ritornello di una canzone dei Mattafix: “Vita metropolitana, e io che cerco di andare avanti…”.

di Laura Fois, 25 anni, politologa e blogger