Al di là delle ultime polemiche fra Christine Lagarde e Atene (secondo il direttore generale del Fondo monetario internazionale, i greci sono in parte responsabili dei loro problemi, perché non vogliono pagare le tasse), uno si chiede se mai si verrà a capo del tormentone ellenico. Con gli aiuti internazionali previsti, fra gli europei e quelli dell’Fmi, siamo a 340 miliardi di euro, a disposizione della Grecia su tre anni: come dire, il 168% del suo Pil, il Prodotto interno lordo. Nonostante questo, la situazione è sempre più traballante. Sarà necessario l’abbandono dell’euro? O il dramma è, in ogni caso, senza uscita? Questi salvataggi internazionali si rivelano alla fine inefficaci e inutili?

Non è vero. Perché in altri casi operazioni dello stesso tipo hanno avuto successo (sebbene a costo di grossi sacrifici da parte della popolazione…). Anche negli ultimi anni. Eccone una piccola rassegna, prendendo spunto da un articolo apparso su Le Figaro. Due (lo vedremo) sono le chiavi costanti della riuscita di interventi del genere: la svalutazione monetaria per ridare fiato alle esportazioni (ma cosa possono esportare i greci?) e/o tremendi piani di austerity (si’, senza remore, né pietà). Apparentemente non sembrano esserci tante alternative:

 l’Islanda, salvata dalla svalutazione. Il Paese è stato trascinato sull’orlo del baratro nel 2008, dal crack di Lehman Brothers. Anche qui l’Fmi è intervenuto, con un pacchetto di aiuti di 2,13 miliardi di dollari: enorme se si calcola che la popolazione islandese è di poco più di 300mila persone. La crescita economica è già ritornata (+3% nel 2011), Reykjavik ha rimborsato in anticipo una parte del prestito del Fondo monetario internazionale e di recente ha di nuovo finanziato sui mercati il proprio debito a tassi simili a quelli dei Btp italiani. La ricetta? Dolorosi piani di austerità, la decisione coraggiosa (e polemica) di non rimborsare le banche creditrici straniere e una svalutazione (ora del 50%) della corona che sostiene l‘export (pesca e alluminio) e favorisce il turismo.

   – la Lettonia, la ricetta dell’austerità. E’ un’altra vittima della crisi del 2008. Il Paese sprofondò sotto il peso di una forte crisi immobiliare (-23% del Pil in due anni). L’Fmi pretendeva la svalutazione del lat, la moneta nazionale. Ma Riga rifiutò, per la forte esposizione dei prestiti ai creditori stranieri (oltre il 90% del totale). Per ottenere un pacchetto di 7,5 miliardi di euro accettò allora di infliggere alla popolazione una cura d’austerità assai terribile. Accettata con rassegnazione, diremmo, sovietica: licenziamenti nell’apparato dello Stato e riduzione generalizzata degli stipendi. Pure qui, la cura si è rivelata salutare. Il 2011 è stato archiviato con una crescita economica del 5,3%. Le esportazioni (alimentano il 55% del Pil), anche in assenza di una svalutazione, sono state favorite dalla competitività recuperata all’interno, grazie a una forte riduzione del costo del lavoro. La disoccupazione, però, resta ancora elevata (16,3%).

   – l’Irlanda, una promettente convalescenza. Nel 2010 anche questo Paese stava per tracollare. Fra aiuti europei e dell’Fmi Dublino strappò quell’anno un pacchetto di 85 miliardi. Ebbene, nel 2011, dopo tre anni di recessione, il Pil è di nuovo cresciuto e quest’anno è previsto un +1,3%.  Agli inizi del 2013 il Paese ritornerà a finanziare il suo debito sovrano sul mercato internazionale dei capitali. La «rinascita», anche stavolta, non è stata per niente indolore. Nessuna uscita dall’euro, ma i salari sono stati tagliati del 18% nel pubblico, del 25% nel privato. Solo così, però, le esportazioni sono state doppate, mentre, grazie a una rinnovata fiducia, sono ritornati gli investimenti stranieri. Negli ultimi sondaggi sono ormai maggioritari i si’ previsti al referendum del prossimo 31 maggio sull’integrazione del fiscal compact nell’ordinamento irlandese.

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