Gramsci scriveva: “La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri”. In una società funzionale e moderna il compito di instillare nei più giovani “coscienza superiore” e aiutarli a “comprendere il proprio valore storico” è demandato agli insegnanti. Il punto è che in Italia per diventare insegnanti, e quindi per assolvere al compito gravoso cui faceva riferimento Gramsci, bisogna avere da parte un bel po’ di soldi. Perché? Il perché lo sanno tutti quei docenti precari che in questi giorni sono alle prese con un acronimo da brividi: TFA, che sta per Tirocinio Formativo Attivo.
Cos’è il TFA? Un tempo la formazione degli insegnanti passava attraverso le SSIS, le Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario. Oggi questa formazione è stata affidata alle Università che devono bandire ogni anno un concorso pubblico per detentori di titolo di studio. Il concorso dà accesso a un corso, il TFA appunto, di durata annuale, che si articola in un percorso di esami e di ore di lezione in classe che non prevede retribuzione, né alcuna forma di rimborso spese per gli aspiranti insegnanti.
Va notato che tra gli “aspiranti” insegnanti c’è anche chi insegna di fatto (senza abilitazione) da anni, firmando e certificando atti e documenti, persone che dovranno sostenere insieme ai neolaureati, i test di ammissione al TFA (questo è uno dei punti più controversi della questione in quanto il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha prima dichiarato che gli insegnanti che avessero almeno tre anni di insegnamento non avrebbero dovuto sostenere prove preselettive, salvo poi essere smentito da una nota apparsa ieri sul sito del Miur in cui si rimanda il tutto alla programmazione 2012/2013).
E questo è niente. Il nocciolo del problema è quando si va a dare un’occhiata ai costi d’iscrizione al concorso, che variano da regione a regione. L’accesso al test preliminare oscilla fra i 100 e i 130 euro (per classe di concorso, cioè un docente di lettere classiche, per esempio, che ha la possibilità di concorrere a 4 classi, dovrà sborsare 400 euro solo per il test preselettivo), e siamo nell’ambito delle spese di segreteria che più o meno riguardano la partecipazione a tutti i concorsi pubblici in Italia. La mannaia si abbatte nel momento in cui i futuri insegnanti devono perfezionare l’iscrizione ai corsi, lì si va dai 2000 euro richiesti dall’Università di Bergamo agli oltre 3000 dell’Aquila, Perugia e Trento (qui l’elenco completo per ogni singola università), ossia i costi di un vero e proprio master.
Ora, consideriamo che questo salasso va a ricadere, a rigor di logica, su persone disoccupate o – nei casi migliori – precari della scuola, cittadini insomma alle prese con la questione primaria e quotidiana della sopravvivenza, quello che mi domando è, al di là delle questioni di merito, è normale che lo Stato, tanto più in un momento delicato come questo, faccia cassa sfruttando un’emergenza, come quella del lavoro, e rifacendosi su una delle fasce più deboli e già sfiancate dalla crisi economica e sociale di questi anni?