Il poeta Danilo Dolci nel 1968 consumò una parte della sua vita a lottare contro l’abbandono del Belice. Al governo c’era Aldo Moro, al Quirinale Giuseppe Saragat, il 15 gennaio di quell’anno i paesi della Sicilia occidentale, Gibellina, Santa Ninfa, vennero rasi al suolo da scosse che durarono un mese intero: 370 morti, 70 mila senzatetto. Dolci mise su una radio clandestina per denunciare l’inerzia dello Stato e della Regione Sicilia. “Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale“, esordiva con la sua voce tuonante. “Siciliani, ascoltate, si sta compiendo un delitto di enorme gravità, si sta spegnendo una popolazione intera“. Manifestazioni, proteste, l’impegno di artisti e intellettuali portati in quelle lande per progettare il sogno della città-territorio, servirono a poco. Quel sisma è ancora oggi ricordato come il sacco del Belice. Una ruberia infinita, una pioggia di leggi, leggine e finanziamenti pubblici durata più di 40 anni.
L’ispettorato per le zone terremotate del Belice, istituito nel 1968, fu chiuso nel 1991. Dopo 12 mila miliardi di vecchie lire spesi nel corso dei decenni, un anno fa sono stati chiesti altri 450 milioni di euro. “Per completare la ricostruzione“. Ma non è sempre scandalo, sacco, spreco di risorse pubbliche. Perché il sisma che sei anni dopo, maggio 1976, colpì il Friuli (mille morti, 3 mila feriti, 137 comuni colpiti e 75 mila case danneggiate, 18 mila distrutte) ebbe una storia diversa. Bastarono dieci anni, infatti, per rimettere in piedi case e paesi. “Facciamo da soli“, dissero i friulani. E funzionò perché buona parte degli interventi fu affidato direttamente ai Comuni. Ma bastarono pochi anni, appena quattro, perché di nuovo un terremoto si trasformasse in scandalo. “Irpinia-gate”, è questo il marchio che segna il sisma che il 23 novembre del 1980 colpì Campania e Basilicata. Tremila morti, paesi della dorsale meridionale appenninica gravemente colpiti, 362 mila abitazioni distrutte e gravemente danneggiate, l’economia della parte più povera del Sud in ginocchio, migliaia di persone costrette a vivere per anni in container e baracche prefabbricate.
È stato l’ultimo, importantissimo esempio di grande solidarietà nazionale. Non c’era la Protezione civile, nelle fasi più drammatiche dell’emergenza c’erano pochi vigili del fuoco con mezzi scarsissimi, e militari dotati di pala e piccone. Ma dal Nord arrivarono migliaia di volontari organizzati. Operai delle fabbriche bresciane, lavoratori delle coop di Emilia e Toscana (tantissimi), esperti e tecnici da Roma. L’Italia decise di unirsi, come per l’alluvione di Firenze. E fu l’ultima volta, perché sei mesi dopo la tragedia, il Parlamento approvò una legge per la ricostruzione modellata più sulle esigenze dei notabili locali, che su quelle dei terremotati. Basta rileggersi i faldoni della Commissione d’inchiesta istituita il 7 aprile 1989 e presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, per capire cos’è stato lo spreco di risorse pubbliche. Strade, viadotti, gallerie, 20 aree industriali costruite in zone di montagna e finanziamenti a pioggia a improbabili iniziative. Arrivò anche un imprenditore che voleva costruire barche in alta montagna. Un business da 64 mila miliardi di vecchie lire, che gli italiani pagano ancora oggi, 32 anni dopo, con una accisa sulla benzina di 4 centesimi. L’economia della catastrofe ha prodotto paesi in buona parte ricostruiti ma desertificati (2 mila persone lasciano ogni anno l’Irpinia, secondo l’osservatorio Migrantes ) e fabbriche chiuse. Ma è con il sisma de L’Aquila (6 aprile 2009, 308 morti, 1600 feriti, 65 mila sfollati) che si sperimenta la prima gestione televisiva di una tragedia. Al governo c’è Silvio Berlusconi, il suo braccio armato è la Protezione civile di Guido Bertolaso. Berlusconi non vuole container, “non avremo una nuova Irpinia“, e la gente è costretta a vivere per mesi nelle tendopoli, con i container della Protezione civile chiusi nei depositi.
Berlusconi non vuole sentire parlare di ritardi, e allora si abbandonano i centri storici per costruire le new towns. Un progetto che il capo del governo aveva già nei cassetti, quello delle città satellite. Così a L’Aquila, dove il centro storico è ancora off-limits e transennato, nascono 19 nuove città. Quindicimila aquilani trovano posto in 4449 appartamenti già arredati e con lo spumante nel frigo. A stapparlo, a reti unificate, è Silvio Berlusconi in persona. Dell’abbandono della città e dei paesi, della ricostruzione che ancora non inizia, non se ne parlerà più. L’Aquila non troverà più il suo volto vero. Questa è la storia, come verrà ricordato il terremoto dell’Emilia lo decideranno Monti e i tecnici. Per il momento, il rischio è che il segno di questa tragedia sia quello dell’abbandono (500 milioni di danni, 50 per gli aiuti), di un Paese non più solidale, legato ai pareggi di bilancio e ai vincoli europei. Un Paese che abbandona al suo destino l’Emilia della solidarietà.