Il caso dell'imprenditore Stefano Cerri, ucciso a Milano il 10 dicembre 2008, e il cui corpo non è mai stato trovato, raccontato attraverso le parole del pm Antonio Sangermano che nella sua requisitoria ha chiesto e ottenuto la condanna a quattro ergastoli
Ufficio della terza sezione della Squadra Mobile di Milano. Ore: 17 e 30. Fuori il gelo di dicembre morde il pavé di via Fatebenefratelli. Tre persone attendono sedute. La stanza è spoglia. C’è odore di muffa. “Tu vorresti dire che lui non mi ha mai insultato?”, la donna dal fisico minuto si rivolge a uno dei due uomini. Prosegue: “E adesso non mi dire che lui non era geloso, ossessivo e possessivo”. Lui annuisce. Lei, allora, ringhia parole contro l’altro uomo: “Tu dovevi farti i cazzi tuoi, io sono uscita dalla tua vita tempo prima del 24 novembre del 2006, hai continuato, hai continuato”. Risposta: “Tu mi hai promesso che non mi avresti mai lasciato”. Poi un poliziotto lo chiama. Nella stanza resta la donna con il primo uomo. Il dialogo prosegue. “Lo odiava, non mi dire che non lo odiava, dai, perché lui era convinto che io l’avessi lasciato per lui, ma io l’avrei lasciato comunque”. Ancora: “Dieci giorni che manca, dove può essere?”. Silenzio. Ma la domanda attende risposta. “Sottoterra, perché nessuno si tiene una persona sequestrata dieci giorni”.
Eccola la scena che incastra, spariglia e ricompone le pedine del caso di Stefano Cerri, l’imprenditore scomparso la sera del 10 dicembre 2008 e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Per il caso la Corte condanna quattro persone all’ergastolo: il mandante Stefano Savasta (anche lui imprenditore nel settore grafico) e i tre esecutori materiali: i dominicani Marthy Hernandez Rodriguez, Omar Calcano Manzueta e Francisco Frias Sanchez, l’ultimo ancora latitante. Il take di agenzia arriva nella tarda serata del 28 maggio 2012.
Eppure questa non è solo una storia di cronaca nera. E’ la comédie humaine di Balzac aggiornata al terzo millennio e precipitata nel grigio della periferia milanese. E lo si capisce, al di là della sentenza, dopo aver letto e riletto le oltre 600 pagine della requisitoria del pubblico ministero Antonio Sangermano, fiorentino, tosto, preparato, capace, in due giorni di parole e frasi serrate, di strappare questa vicenda dalla brutale (e in fondo banale) cronologia dei fatti vestendola con un canovaccio universale. Amore e odio. Vittima e carnefice. In mezzo la passione che, lacerata, si fa mortale e si trascina dietro la distruzione di sé e degli altri.
Torniamo allora all’ufficio della questura di Milano. Uno dei due uomini è Stefano Savasta. L’altro è un suo fiduciario. Si chiama Bruno La Marca, precedenti per droga e qualche anno di galera. La donna, invece, è Ivana Siviero, professione: impiegata. Lei è l’amante oltre il tetto coniugale. Per anni (14) interpreta la parte senza sbavature, anche dopo aver subito minacce e aggressioni. Tutto gira e tutto si tiene. Fino a quando la Siviero decide di lasciare Savasta (nel 2006). E allora tutto crolla. E’ la miccia che infiamma le polveri della distruzione. “La fine di quel rapporto – annota Sangermano – in Savasta dà vita a un climax ascensionale di condotte persecutorie, minatorie, ritorsive, estorsive e lesive”. Savasta reagisce così. Lei, invece, abbandonato l’incubo, inizia una relazione (ancora una volta extraconiugale) con Stefano Cerri.
Questo il triangolo che definisce i rapporti e consolida i caratteri proiettando una semplice vicenda locale là dove stanno le grandi storie di cronaca. I protagonisti, dunque: c’è Savasta che “alterna, in modo chiaramente patologico, la propria propensione all’elaborazione intellettuale macchinosa con una sorta di ingenuità guascona, figlia del bisogno di “incutere paura” e di “rivendicare” la paternità delle azioni criminose compiute” attraverso “i servigi di una folta schiera di fiduciari”: dallo spacciatore al rom minorenne. C’è Stefano Cerri, “l’uomo qualunque” con “una normale progettualità esistenziale” fatta di “gare podistiche, amici, l’acquisto di un’auto, la famiglia”. E c’è la Siviero, vittima certamente, ma anche donna che tradisce e non si nasconde. E che del suo rapporto con Cerri e la moglie dice: “Trombiamo tutti e tre, ce lo trombiamo tutte”. Insomma, “piccole perversioni” da vita normale. Quella che non è di Savasta.
La rabbia per la perdita cova e prende fuoco rapidamente. Il 21 novembre 2007 la donna, appena uscita dalla palestra, subisce una rapina. Due uomini l’aggrediscono, ma più che delle borse si preoccupano di massacrarla di botte. Ne uscirà con un frattura scomposta del setto nasale. Da qui tutto accelera. E la personalità “da mafioso mancato” di Savasta inizia a deragliare fino a diventare “un uomo violento, pervicacemente proteso alla ritorsione e alla vendetta”.
Il 10 dicembre 20008 scompare Cerri. Eppure, “l’ometto del Gratosoglio” (così lo definisce Savasta) inizia a morire ancora prima. A partire dall’otto febbraio, quando la procura, dispone una perquisizione in casa di Savasta. Riflette Sangermano: l’imprenditore “capisce che la sua donna si è infine liberata, che è pronta a lottare e reagire”. Questo è il momento “apicale” che fa esplodere “l’abnorme e deviata ottica criminale del Savasta”. Che attaccherà per difendersi. Perché ora capisce che la Siviero, con le sue parole e con il suo coraggio “può condurre gli inquirenti al disvelamento investigativo delle sue malefatte”. In questa atmosfera “di odio, desiderio di vendetta e paura, feroce, tremenda, nasce la morte di Stefano Cerri”.
Ecco perché il 19 dicembre Savasta, Siviero e La Marca si trovano in questura. All’epoca la squadra Mobile è guidata da Francesco Messina che pochi mesi dopo lascerà il comando ad Alessandro Giuliano. Gli investigatori vogliono capire. In quel 2008, su Savasta pesa una denuncia per stalking fatta dalla stessa Siviero. Da qui la perquisizione del 6 febbraio 2008. Un giorno, abbiamo visto, fatale. Tanto che l’8 febbraio Savasta confida a La Marca di voler uccidere Cerri. Mentre, il 19 dicembre sempre al suo fiduciario spacciatore dirà di essere lui il mandante.
Eppure forse più che capire gli investigatori vanno in cerca di conferme. In mano, infatti, hanno la denuncia della Siviero (11 dicembre 2008) nella quale la donna “riferiva di aver ricevuto dal Savasta una lunga serie di minacce, una delle quali, che avrebbe ammazzato chiunque avesse avuto una relazione con me, che l’avrebbe sotterrato e fatto mangiare dalle formiche o rosicchiato dai topi”. E di topi si tornerà a parlare durante il processo, quando lo stesso Savsta confesserà un piano per avvelenare la Siviero con materiale biologico estratto da un ratto.
Stefano Cerri scompare il 10 dicembre 2008. Tra le 19 e le 19,21. Il gioco dei tabulati telefonici è decisivo. Il suo cellulare resta acceso fino alle 22. Qui aggancia la cella di via Curiel a Rozzano, area dove molto probabilmente è stato sepolto il suo cadavere. Il 3 marzo 2009 Stefano Savasta finisce in carcere. L’indagine viene incardinata. La prova viene costruita in maniera complessa. Il 2 febbraio 2010 si pente uno degli esecutori materiali. E’ il domenicano Wilton Martinez Valles (condannato a nove anni con rito abbreviato). Racconta: “Intendo rendere piena confessione di un grave fatto criminoso di cui sono a conoscenza e che riguarda il rapimento e la eliminazione fisica di una persona avvenuta nel dicembre 2008”. Persona “materialmente uccisa da Omar Calcano e tale Hernandez”.
Da qui la cronologia dei fatti. Cerri fu preso “mentre stava abbassando la saracinesca”. In quel momento “Calcano lo afferra alle spalle ed Hernandez lo prende per i piedi. Cerri aveva un cellulare. Cerri non gridò perché gli tapparono la bocca. Cerri fu trasportato da Calcano ed Hernandez dentro il furgone”. Valles sta fuori. Fa il palo. Chiuso il portellone sente numerosi colpi. “Quando Calcano ed Hernandez scendono, Valles si avvicina e vede il corpo del Cerri riverso a faccia in giù, con il volto insanguinato”. Il furgone riparte e si ferma in via Rosenthal sempre a Rozzano. Due scendono e si allontano, Valles attende accanto al furgone. Il cadavere sul pianale. Si riparte per arrivare in una zona di campagna attorno a viale dei Missaglia. Di nuovo il racconto: “La buca la scavò Fran Budu (il quarto esecutore latitante, ndr) con pala e piccone”.
Il 28 maggio 2012 il primo grado condanna. Ma senza la “smoking gun”, ovvero il corpo di Cerri. Eppure, nonostante questo, il vero atto d’accusa che incastra Savasta riecheggia ancora dagli uffici della questura in un gelido giorno di dicembre. Ivana Siviero lo urla in faccia a Stefano Savasta: “Ma pensa te dove devi essere arrivato, per che cosa poi! Per che cosa figa? Ma per chi? Ma perché? Ma dimmi perché. Mi dici cazzo perché? Mi dici perché o no? Ma per quale cazzo di motivo? È assurdo… è assurdo, uno distrugge la propria vita e la vita di tutti quelli che gli stanno di fianco per l’orgoglio?!? Ma cos’è, un motivo serio? L’orgoglio. L’orgoglio. L’uomo ferito. (Inc.). Cosa fa? Distrugge la vita di tante persone che gli stanno intorno, compresa la sua, vita, e la vita delle persone che gli stanno intorno: figli, moglie, padre, cognata, tutti no? Tutti, per che cosa? Per l’orgoglio. Per la vendetta. Per la vendetta. Che squallida, schifida cosa la vendetta. La vendetta. Pazzesco”.