Pulviscolo decentrato
Uno che ne è convinto è Eugenio Scalfari, elegantissima silhouette, con il suo bastone da passeggio giolittiano, una giacca azzurro carta da zucchero, e la moglie Serena a cui non sfugge nulla. Dandosi il braccio ti fanno venire in mente un verso di Montale. Quello con la pochette è Giulio Napolitano, secondogenito dell’inquilino del Colle, quello che si anima intorno a Paolo Garimberti è il tavolino della Rai, di fronte al produttore Bassetti c’è Giancarlo Leone, l’unico che in questi giardini ci ha vissuto due vite, una da adolescente, quando al Quirinale c’era suo padre assediato da Camilla Cederna, e un’altra da ineffabile Mandarino di viale Mazzini. Leone mi regala un’immagine folgorante che ti racconta il passato e ti spiega il presente: “Fino a dieci anni fa il rituale era liturgico, il presidente partiva dal fondo del giardino e disegnava una ‘elle’ nei sentieri di ghiaia, i convitati si pietrificavano, i capannelli si ammutolivano, e il rompete le righe arrivava progressivamente, solo dopo il suo passaggio e le strette di mano”. Essere importanti voleva dire essere chiusi dentro questo tragitto di ottocento metri, due linee intersecate e un sistema di potere, una stratigrafia in diretta delle gerarchie di Palazzo che intrigarono il Pasolini di Petrolio: un ordine comunque, una geometria. Ma comunque, se fossi stato a bordo dell’aviocar del Luce, tutto sarebbe stato intelleggibile, come le piste di Nazca nel Perù meridionale.Eppure c’è qualcosa di decadente anche in questo pulviscolo decentrato, nei capannelli delle piccole reti relazionali della gerontocrazia italiana. Paolo Villaggio ha avuto la geniale sfrontatezza di venire in caftano: “Come facevo a mettermi una giacca?”.
Poi c’è il discorso del presidente nei giardini. Nell’anno di supernapolitano, nell’anno di gloria del gollismo migliorista penso che potrebbe essere quello il punto di precipitazione della storia, l’acuto squillante del dramma. “Sono entrato per la prima volta nel 1953, appena eletto deputato…”. Giorgio primo ha già difeso la sua scelta strategica, già spiegato l’ossimoro dolente della “parata sobria”, già dettato l’agenda politica. È la prima volta che Napolitano parla in quel giardino. Pensi che adesso potrebbe chiudere il cerchio con un momento-verità, o con un discorso per gli storici. E invece chiude un lessico privato con eleganza e understatement, celebra un appello all’unità. Per fortuna c’è il ministro tecnico Giarda che alleggerisce il clima con una battuta salace: “Presidente, pensi! Potevamo mettere il ticket agli invitati, stasera”. E Napolitano: “Ci ho riflettuto: ma visto il rapporto fra domanda e offerta ho capito che non era il caso”. Arriva l’eco delle battute di Silvio Berlusconi sulla necessità di stampare moneta, ma è come l’eco di un discorso radio del ventennio (breve) disperso nello spazio. Nessuno gli vuole rispondere, tranne un ministro anonimo che dice alla Tm news: “L’unico pericolo sarebbe se qualcuno all’estero lo prendesse sul serio”. E poi Mario Monti. Scompare pure lui, poveretto, fagocitato in un colloquio con Renato Schifani.
Terna da Comitato Centrale
Eppure, proprio nel finale, il pulviscolo trova per un attimo una sua forma. Clio e Giorgio ritirandosi corrono verso il balcone panoramico mozzafiato, che incornicia un tramonto virato di sfumature di rosa, viola, e porpora. Ci vorrebbe il pennello di Carlo Levi per raccontare gli ultimi quattro folgoranti fotogrammi della scena. Massimo D’Alema si inchioda per aspettare il presidente. Il ministro Fabrizio Barca, che ha appena rilasciato dichiarazioni significative sulla parata (“Io non l’avrei fatta, e avrei mandato i soldati a fare cose in giro per le macerie”) converge sulla rotta con la moglie. Barca, D’Alema, Napolitano. A parte che il grande Luciano Barca (dirigente storico del Pci) è stato sostituito dal figlio, è una terna da Comitato centrale. Questo crepuscolo degli dei, questo taglio di tramonto della Repubblica, non finisce sotto il segno dei tecnici. Ma in quel che resta di Botteghe Oscure.