Il verdetto emesso sabato dal giudice Ahmet Refaat sarà ricordato tanto per le condanne quanto per le assoluzioni, pesantissime le une e le altre.
Cominciamo dalle cose positive: l’ex presidente Hosni Mubarak e il suo ministro dell’Interno Habib Al Adly sono stati condannati all’ergastolo per non aver impedito la repressione che riempì di sangue piazza Tahrir nei 18 giorni che portarono alla caduta del regime. Dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011, i morti nella piazza simbolo della rivolta così come nelle zone circostanti, meno frequentate dalle telecamere delle emittenti televisive, furono almeno 840; oltre 6000 i feriti.
Il processo è stato celebrato in modo non pregiudizievole nei confronti dei due imputati e si è concluso, nonostante richiesta da molti, senza ricorso alla pena di morte.
Fine delle buone notizie. La sentenza infatti condanna chi non impedì il massacro, ma non spiega chi lo ordinò, per non parlare di chi lo eseguì materialmente (oltretutto, nel corso dell’ultimo anno, molti poliziotti sono stati prosciolti in inchieste minori).
Ancora più dell’assoluzione di Mubarak e dei suoi due figli Alaa e Gamal dall’accusa di corruzione, pesa dunque in modo insopportabile, soprattutto per i familiari dei “martiri della rivoluzione”, l’assoluzione per mancanza di prove di sei alti dirigenti delle forze di sicurezza.
Le due assoluzioni che hanno fatto infuriare la folla di Tahrir sono quelle di Ahmed Ramzy, ex capo della direzione centrale della polizia antisommossa, e di Ismail Al Shaer, che dirigeva la polizia del Cairo. Come ha chiesto ironicamente Human Rights Watch, possibile che nel loro ruolo fossero ignari di quello che stava accadendo durante le proteste?
Al di là delle considerazioni politiche, fatte da molti commentatori, sulla necessità di un verdetto salomonico che colpisse solo chi era stato già scaricato dalle forze armate all’inizio del 2011, sulle assoluzioni ha pesato la mancata collaborazione, più volte sottolineata dalla pubblica accusa, da parte dei servizi di sicurezza e del ministero dell’Interno del Cairo.
Che ci fosse un clima sfavorevole a individuare la “catena di comando” è stato rivelato anche dalle intimidazioni e dai pestaggi compiuti da agenti di polizia, lungo tutto lo svolgimento del processo, nei confronti dei familiari delle vittime che intendevano assistere alle udienze e portare la loro testimonianza.
Non appena si è avuta notizia della condanna, piazza Tahrir è tornata a riempirsi di una folla rumoreggiante e composita: militanti rivoluzionari, giovani del Movimento 6 aprile, parenti dei “martiri”, ultrà di calcio, fratelli musulmani. C’era anche il leader di questi ultimi, Mohamed Morsy, pronto a cogliere il vantaggio politico della situazione e a cavalcare la protesta in vista del ballottaggio per la presidenza della repubblica, previsto tra due settimane, in cui se la vedrà con l’ex primo ministro di Mubarak Ahmed Shafiq, il cui quartier generale è stato preso d’assalto dai manifestanti nel fine-settimana.
Per tentare di riempire il vuoto di giustizia lasciato dalla sentenza di sabato, Amnesty International ha chiesto alle autorità egiziane di istituire una commissione d’inchiesta indipendente e imparziale, che accerti la verità su quanto accaduto nelle giornate della “rivoluzione del 25 gennaio” ma anche nei mesi successivi.
Mesi segnati da uccisioni di altre centinaia di manifestanti, da 12.000 arresti, dalle torture in carcere, dalle intimidazioni e dalle violenze contro le donne scese in piazza, compresi i test forzati di verginità.
Violazioni dei diritti umani che il Consiglio supremo delle forze armate non solo non ha impedito ma in alcuni casi ha incentivato e favorito, per lanciare alla popolazione il messaggio che, senza i militari al potere, vi sarà il caos.