Dopo le indiscrezioni sui nomi di presidente e consiglieri i due partiti tacciono e l'invito alla trasparenza di Fini pare sia caduto nel vuoto. Parisi: "Rivendicare al centrosinistra un proprio rappresentante equivale a riconoscere a Berlusconi di nominarne uno suo"
“Siamo ancora qui a parlare di logiche di scambio tra Pd e Pdl, anziché di competenza. Si tratta di patti osceni, ma al momento non credo realisticamente che i partiti possano essere tagliati fuori”. Angelo Guglielmi, storico direttore di Rai3, è convinto che gli accordi sulle prossime nomine Agcom siano un’ulteriore replica delle logiche di cooptazione politica.
Nonostante gli annunci e i buoni propositi delle scorse settimane pare infatti si prosegua in linea col passato, ovvero nel solco degli accordi sottobanco tra i partiti. L’invito di Gianfranco Fini infatti, che aveva chiesto ai deputati una selezione trasparente basata sui curriculum, pare essere caduto nel vuoto. A fomentare il sospetto le indiscrezioni comparse prima su twitter e mai smentite dai partiti, secondo cui su presidente e consiglieri Agcom, l’autorità garante per le comunicazioni che deciderà per i prossimi sette anni le regole sulla par condicio, sulle frequenze digitali e sulla governance di Internet, sarebbe già stata definita la spartizione tra i due partiti. Con buona pace di chi credeva che, almeno stavolta, venisse premiata la competenza prima della cooptazione. La rosa dei nomi sarebbe così completa: il bocconiano (e montiano) Angelo Cardani presidente. Poi, i consiglieri: l’ex manager Fininvest Antonio Martusciello e l’ex collaboratore di Tajani Antonio Preto per il centrodestra e Maurizio Decina del Politecnico di Milano e Antonio Sassano della Sapienza di Roma sul fronte del centrosinistra. Finora la legge aveva previsto la nomina di 4 consiglieri nominati dalla Camera e altrettanti dal Senato, che Monti ha ridotto a 4. Il presidente, invece, è direttamente nominato dal premier.
“Sono contrario alle nomine concordate dai partiti che sono sempre frutto di uno scambio“, spiega Guglielmi, secondo cui la spartizione dell’Agcom è, tra l’altro, strettamente legata alle nomine Rai. Su cui i partiti, a differenza dell’authority, non hanno ancora trovato un’intesa. “E’ possibile che sia un do ut des concordato affinché il Pdl riesca a confermare il suo consiglio uscente”, aggiunge, e ritiene che nemmeno il governo Monti sia in grado di cambiare equilibri e prassi consolidate. “L’esecutivo tecnico è solo una pena obbligata. La Rai avrebbe bisogno di un nuovo polso. Tutti continuano a dire che è ancora la ‘più grande industria culturale italiana,’ che è ancora ‘mamma Rai’. Ma non è vero”. E per l’ex direttore della terza rete l’unica via d’uscita sarebbe un direttore ‘tecnico’, un “esterno che ha dimostrato di essere capace e libero, slegato dai partiti e che non subisce condizionamenti. In alternativa Michele Santoro o una scelta interna alla Rai”. Ma vista l’ingerenza dei partiti è una soluzione lontana.
Nei giorni scorsi era stato lanciato l’allarme sull’opacità delle nomine anche da Open Media Coalition, che si batte per la trasparenza nelle authority e nel servizio pubblico. Una preoccupazione rilanciata anche da Agorà digitale secondo cui le audizioni dei candidati all’authority “sono divenute ora fondamentali, considerato il fatto che già circolano, non smentiti da alcun partito, i nomi dei futuri nominati”. Nomi che però devono, o dovrebbero, confrontarsi con gli “altri candidati sulla loro compatibilità con il ruolo che andranno a ricoprire e la loro posizione sulle tematiche che dovranno regolamentare”.
Se sul fronte Pdl le bocche sono cucite, dal Pd è solo Arturo Parisi a prendere le distanze dai nomi che il suo partito avrebbe scelto e a opporsi a condizionamenti e lottizzazioni. “In particolare nel caso dell’Agcom – ha detto il deputato di centrosinistra – rivendicare al Pd un proprio rappresentante equivale a riconoscere a Berlusconi di nominarne uno suo”. Il miglior modo, prosegue, “per fare del controllato il controllore, o, per ribadire che il controllato ha diritto di scegliersi il suo controllore”. Quindi, il criterio per Parisi è uno solo: non voterà “nessun candidato se non sulla base della sua sicura competenza e dell’assenza di ogni traccia di relazione con chi è destinato ad essere da lui regolato”. Ma nessuno, tra Pd e Pdl, pare sposare pubblicamente la sua posizione.