Una recente interrogazione presentata alla Camera dall’onorevole Daniele Galli (Fli) al Ministro Ornaghi solleva la questione della governance del Centro Sperimentale di Cinematografia, gloriosa, gloriosissima scuola che ha formato intere generazioni di cineasti e intellettuali in Italia e non solo (per dire, Michelangelo Antonioni e Gabriel García Márquez sono usciti di lì). Il Centro esiste dalla metà degli anni Trenta, è un’istituzione dalla quale in un modo o in un altro – come allievo o docente o come collaboratore a vario titolo – è passata gran parte dell’intellighenzia italiana. Da sempre ha avuto una natura molto particolare, perché le materie che vi si insegnano sono la regia, la recitazione, la fotografia, la scenografia, il montaggio ecc. Ma anche la storia del cinema, la storia dell’arte ecc. Da dieci anni il presidente del Centro Sperimentale è Francesco Alberoni, sociologo, professore, firma storica del Corriere della sera e ora del Giornale.
Quando Alberoni fu nominato dal governo Berlusconi, prese il posto di Lino Miccichè, grande figura di animatore culturale irriducibile a una sola funzione (fu critico dell’Avanti!, poi di Rai3, professore di Storia del cinema a Siena e poi a Roma, direttore di riviste, organizzatore di festival, presidente della Biennale di Venezia ecc.). L’interrogazione dell’on. Galli invita il ministro a verificare i criteri di gestione del Centro, apparentemente non sempre improntati a trasparenza (Galli segnala per esempio che il direttore della sede milanese del Centro Sperimentale è il genero di Alberoni e mette il dito sui super stipendi di alcuni dirigenti, pagati fino a 150.000 euro l’anno). Ma tutta la vicenda serve anche a riportare l’attenzione sulla scuola, proprio nel momento in cui sta scadendo il mandato di Alberoni e si dovrà procedere alla nomina di una nuova dirigenza.
Alla nomina di Alberoni nel 2002 ci fu chi – pur non mettendo in discussione il profilo scientifico e culturale del professore – si chiese che cosa ci facesse un sociologo al Centro Sperimentale. “Sarebbe come mettere un astrologo al dipartimento di italianistica”, commentò ad esempio Carlo Lizzani. Ora per il rinnovo delle cariche è auspicabile che venga seguita la prassi dei curricula inaugurata dal governo per nominare la nuova dirigenza Rai. Ma, data per scontata la necessità di una competenza specifica, bisogna anche chiedersi quale profilo di cineasti si intende formare. Truffaut diceva che i film dei registi della sua generazione rischiavano di essere giudicati da qualcuno che poteva non aver mai visto un film di Murnau. Oggi, quasi quarant’anni dopo quelle parole di Truffaut, il rischio è che siano i cineasti di domani, e non solo gli spettatori, a non aver mai visto un film di Murnau.
Come sempre, l’alternativa è tra un modello formativo più attento ai bisogni del mercato (capace cioè di formare dei buoni professionisti, punto e basta) e un modello più attento alla formazione di una consapevolezza critica accanto a quella tecnica, un modello cioè che riporti alla tradizione originale del Centro. Il cinema italiano ha bisogno di figure colte oltre che tecnicamente preparate, altrimenti tutto sarà sempre “medio”. In questo senso stupisce la recente presa di posizione dell’associazione dei 100 Autori (una delle principali associazioni dei professionisti del cinema), la quale in un comunicato si augura che si interrompa la tradizione di nominare un professore universitario alla presidenza del Centro. Il problema non è questo. E’ invece quello di pensare che un’istituzione deputata alla formazione deve dare gli strumenti essenziali della formazione stessa: capacità tecniche ed educazione al pensiero critico (e non si vede perché uno sceneggiatore o un montatore dovrebbe essere a priori meglio di un professore). Sapendo peraltro che la grande Arte non si insegna in nessuna scuola, ma ha bisogno di percorsi eccentrici e autonomamente originali.
Altrimenti saremo sempre condannati ad avere un cinema “carino”.