Prendo spunto da alcuni commenti ad un post pubblicato su questo sito per chiarire, e ce n’è bisogno, che occuparsi di non profit non significa, necessariamente, ridursi nello stesso stato economico di chi accogli o curi o assisti.
Sembrerebbe questo, leggendo i commenti di coloro che si ritengono scandalizzati quando, sentendo parlare di non profit, scoprono che chi ci lavora tutto il giorno, guadagna uno stipendio. Ora che in Italia ci sia una vecchia e perdurante tradizione pauperista che propende per livellare verso il basso la condizione economica delle persone è cosa nota. Ma che chi lavora con soggetti marginali o gravemente ammalati non debba prendere un soldo è cosa illogica e cretina.
Il non profit non necessariamente coincide con il volontariato: lo comprende ma non si esaurisce in questo. E se alcuni interventi o funzioni possono essere svolti egregiamente dal volontariato altri, parlo di minori con problemi di comportamento, tossicodipendenti con problematiche psichiatriche, soggetti psichicamente instabili (e molto altro), è meglio siano seguiti da professionisti e, aggiungo, da professionisti pagati e quindi da organizzazioni di professionisti.
Il non profit, da questo punto di vista è immaturo. Paga poco e male. Sconta l’ipocrita moralismo che opacizza ogni gesto od azione che abbia, come contrappeso, una remunerazione. Non si sa perché. Né si capisce perché questo valga per un settore privato quale il non profit ma non, ad esempio, per la sanità pubblica dove si è pagati (poco e male ma sempre più che nel non profit).
Una fotografia, per alcuni, che dovrebbe vedere straccioni curati da altri straccioni che, per fare felice quella parte di Italia a cui va il sangue alla testa quando si parla di danaro, devono donare il loro tempo e le loro forze rigorosamente a titolo gratuito.
Senza lamentarsi, please.