Il divario (lo spread, per usare un termine alla moda) è in media del 37 per cento. Cioè, fatto cento lo stipendio di un maschio, il suo equivalente donna guadagna 63. Sono i numeri di una ricerca della Fondazione Debenedetti che sarà presentata a Trani il 9 giugno alla Conferenza europea su “Le diverse dimensioni della discriminazione”.
Sono numeri parziali, perché riguardano un campione di laureati (30 mila) molto particolare: ragazzi diplomati in 13 licei classici e scientifici milanesi fra il 1985 e il 2005. Ma consonanti con quelli di un’altra ricerca, “Valorizzare le donne conviene”, di Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua, appena pubblicata da il Mulino.
Come si capisce dal titolo, questa seconda ricerca fa un passo in più e cioè evidenzia non solo come le donne siano discriminate sul lavoro (per salario e mansioni), ma quanto il loro scarso utilizzo (il tasso di disoccupazione femminile in Italia è del 9,7 per cento, quello di inattività addirittura del 48,9, il peggiore d’Europa) danneggi l’economia del nostro paese.
Come spesso accade, all’estero l’hanno già capito che il lavoro delle donne è una delle carte vincenti per lo sviluppo economico: sull’argomento è stato addirittura coniato un neologismo, “womenomics”, che sintetizza la stretta connessione fra crescita del lavoro femminile e crescita economica.
“La scarsa rappresentazione delle donne nelle imprese ha un costo in termini di performance e profitti” scrivono le autrici (che sono due economiste e una demografa) riportando i dati di altre ricerche europee. I gruppi di lavoro “misti” sono invece più produttivi di quelli tutti maschili o tutti femminili. Ma, soprattutto, “sono le imprese che investono di più nelle donne, con un atteggiamento non discriminatorio, quelle che hanno più successo (…) sono più efficienti e più competitive nel lungo periodo”.
In un momento come questo, con una crisi che morde soprattutto negli strati più deboli della popolazione, è più che mai necessario ottenere più posti di lavoro e più denaro proprio per i più deboli fra i deboli, e cioè le donne. Se ne trarrebbero enormi vantaggi per l’intera collettività. Per esempio: colmare il divario occupazionale di genere permetterebbe di risolvere il problema della sostenibilità delle pensioni in due modi: “Direttamente, con l’aumento del tasso di occupazione – una maggiore quantità di forza lavoro farebbe scendere il rapporto tra pensionati e lavoratori rendendo più sostenibile l’erogazione delle pensioni – e indirettamente, attraverso l’aumento del tasso di fertilità” spiegano le autrici.
Ma il lavoro femminile deve essere potenziato anche ai livelli più alti, per una questione di lungimiranza prima ancora che di giustizia sociale: “Come possono oggi le imprese operare in un mondo sempre più multiculturale ed eterogeneo senza modificare la natura e la struttura dei propri gruppi al vertice?” si chiedono ancora le autrici: “Comitati esecutivi e consigli di amministrazione formati esclusivamente da uomini fra i 50 e i 65 anni (…) non hanno certo gli strumenti necessari per gestire la diversità e complessità culturale del nostro tempo. Come si può credere che stiano usando effettivamente criteri meritocratici per assumere i talenti migliori quando l’80 per cento o più di coloro che vengono promossi alle posizioni più alte sono uomini? Ma come si può cambiare tutto questo se la nostra classe politica è tra le più vecchie e mascolinizzate di tutta Europa?”. Già, come si fa?