Il caso di Megaupload, sito di archiviazione e scambio di materiale on-line, continua a far discutere fuori e dentro le aule istituzionali, ma l’evolversi dei fatti potrebbe trasformarlo in un caso unico nel suo genere. A piccoli passi Ira Rothken, l’avvocato difensore del suo fondatore Kim Dotcom, sta conquistando delle tessere importanti in quello che potrebbe essere il puzzle che porterà all’archiviazione del caso. Il fondatore del più famoso impero informatico di hosting era stato arrestato il 20 gennaio con le accuse di racket, riciclaggio di denaro, violazione ripetuta e continuativa dei diritti copyright.
La prima conquista da parte dell’avvocato difensore è stata l’autorizzazione del rilascio su cauzione in un raggio di 80 chilometri dalla residenza di Coatesville in Nuova Zelanda. Qualche giorno dopo, il giudice di Auckland Davide Harvey ha migliorato ulteriormente la posizione di Dotcom permettendogli di rimuovere il dispositivo elettronico che monitorava i suoi spostamenti e dandogli inoltre l’autorizzazione di tornare nella sua villa, fino a quel momento ancora sotto sequestro. Lo stesso giudice Harvey il 29 maggio ha inoltre dato una stretta ai tempi: entro 20 giorni l’accusa ha il dovere di presentare tutta la documentazione contenente i capi d’imputazione e le prove della sua colpevolezza. Un passaggio fondamentale per la difesa di Dotcom che fino a questo momento ha avuto a disposizione solamente alcune comunicazioni via mail, qualche documento ma non sicuramente il quadro completo su cui costruire la difesa vera e propria.
Alcuni giorni fa l’avvocato è tornato all’attacco presentandosi dal giudice distrettuale dello stato della Virginia chiedendo l’archiviazione del caso, per aver palesemente infranto il V e il XIV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. Secondo la difesa le motivazioni che potrebbero portare alla chiusura definitiva del caso contro Megaupload sono semplici: trattandosi di accuse a livello penale, il Governo degli Stati Uniti è tenuto a notificare la citazione in giudizio al destinatario, informandolo della situazione, per procedere in un secondo tempo con le azioni necessarie. Tutto questo per l’impero informatico di Dotcom non è successo: a gennaio l’FBI ha chiuso immediatamente il portale principale dell’azienda e tutti i suoi derivati, sequestrato i server e gli averi personali del fondatore e dei suoi soci senza alcun preavviso.
Ma per quale motivo il Governo degli Stati Uniti avrebbe, di fatto, agito contro la legge? La spiegazione è di nuovo molto semplice: non possono essere notificate citazioni a cittadini e aziende al di fuori della giurisdizione degli Usa. Al momento dell’arresto l’azienda denominata “Megaupload” aveva infatti sede operativa ad Hong Kong e, a maggior ragione, nemmeno una succursale nel territorio statunitense. Questo aspetto getta ulteriore benzina sul fuoco delle accuse negando in qualche modo il potere giuridico che gli Stati Uniti avrebbero nei confronti di una azienda al di fuori del territorio di sua competenza, nonostante l’azione legale intrapresa fosse stata definita di caratura internazionale.
A chiudere il cerchio di questa curiosa guerra legale giocata su cavilli burocratici, rientra la richiesta di risarcimento plurimilionaria (stimata intorno ai 70 milioni di dollari) che l’avvocato Rothken ha avanzato al giudice della Virginia: l’importo andrebbe a coprire l’ammontare dei beni sequestrati nel mese di gennaio a cui, se andasse in porto, si potrebbero unire i danni che l’azienda avrebbe subito durante questi mesi di inattività. Dal canto suo Kim Dotcom continua a definirsi vincitore fin dal principio e non si è nascosto nell’intervista concessa a TorrentFreak: “È come se avessimo ricevuto una condanna a morte senza alcuna possibilità di ribattere in aula. Se saremo considerati non colpevoli (e lo saremo), i danni che l’azienda ha subito sono comunque impossibili da arginare. Questa chiusura di Mega è stata possibile grazie alla corruzione al più alto livello politico, al servizio degli estremisti del copyright di Hollywood”.